lunedì 29 giugno 2009

Come ragno schifoso

Sei entrata volontariamente qui ed io non posso lasciar escire nessuna donna senza notificarla alla polizia; d’altra parte non puoi partire, senza pagarmi la roba che ti ho dato e quell’abito di lana finissima...

Ma io non lo voleva, ‒ interruppe sgomenta la Barberina, ‒ fu lei che mi mandò l’ordine di metterlo.

Dovevi rifiutare, ‒ disse la donna; ‒ ora che l’hai messo e messo da te, spontaneamente, e portato parecchie ore, vuoi forse provare che non lo volevi e che me lo rendi?

La donna, come ragno schifoso, avvolgeva le fila luride e oscure della sua tela intorno alla misera creatura. Cinica, impassibile, senza pietà, le toglieva ogni speranza, le troncava ogni possibilità di liberarsi, e ora dicendo la verità, ora delle bugie, le faceva vedere la sua condizione come un’irreparabile fatalità che l’aveva colpita.

La povera ragazza, fuor di sé per lo sgomento, le si buttò ai piedi, la supplicò, la scongiurò; pianse, le parlò di sua madre, le parlò delle sue sorelline, le disse che avrebbe pregato sempre sempre per lei, che avrebbe fatto qualunque cosa le avesse imposto, purché la lasciasse uscire di lì, andar via, fuggire.

La donna fu impassibile.

La giovanetta, esaltata, disperata, diventava eloquente; parlò delle sue paure, dei suoi ribrezzi; parlò a quella donna della sua innocenza, le parlò del suo amore per Luca. Metteva a’ suoi piedi ciò che aveva di più sacro, di più caro. Voleva che i suoi ricordi, i suoi affetti, il suo amore implorassero per lei e con lei quella megera.

Ma costei non le dava retta.

Basta, basta. ‒ Tranquillati... ne riparleremo domani... vedremo ‒ disse.

Domani, domani mattina per tempo mi lascerà andare? ‒ domandava supplichevole la giovanetta.

Vedremo... ho detto vedremo, ‒ e suonò un campanello.

La fanciulla balzò in piedi tutta impaurita.

Va’ nella tua camera... tranquillati. Vedrai che domani sarai più calma ‒ disse allora la padrona.

Ma la notte... la notte questo luogo è aperto: oh, signora, proteggetemi!

Chiudi la tua camera, ‒ disse con un’ironia che non sfuggì alla poverina, la quale si rimise daccapo a implorarla, perché la lasciasse andare.

Ma in quel punto entrò la fantesca che l’aveva accompagnata la mattina.

domenica 21 giugno 2009

Barberina non ne sapeva nulla

Barberina non ne sapeva nulla. Credeva d’esser libera, di tornar fuori, di poter escire da quel luogo e stendersi ancora sopra la terra dura e fredda e dormire sul lastrico della via o all’ombra della porta di qualche chiesa, col cielo sopra il capo, puro e sereno, scintillante di stelle, di quelle migliaia di stelle che conosceva e guardava attentamente fin da quando era bambina, e che le pareva non dovessero essere mai vedute dalle finestre anguste di quella casa.

Voleva andar via e aspettare il levar del sole per cercarsi di nuovo del pane e del lavoro; voleva andare la mattina seguente all’ospedale per raccomandarsi alla monaca della sua infermeria.

Essa pensava a tutto questo mentre, decisa di andarsene, aspettava la risposta della signora. Si figurava la notte chiara e fredda che si stendeva sulla città, e le prime luci dell’alba, e le ultime stelle che impallidivano all’orizzonte, morendo dolcemente affogate nella luce del giorno, e le ricordava ad una ad una come fossero amiche, e non provava più la paura dell’andar fuori sola di notte; le pareva di non dover temere più nulla una volta che avesse potuto escire da quella casa.

Ma era venduta.

La donna lo sapeva, e la guardava con l’indifferenza con la quale un bambino guarderebbe il suo uccellino abbandonare la gabbia, mentre tiene fra le mani il filo invisibile, ma sicuro, che gli ha legato al piede.

Non ardiva però ancora dirglielo, perché non si sentiva sicura di averla interamente in poter suo.

Non ti sei forse presentata volontariamente? ‒ disse. ‒ Io non ti ho cercata, non ti ho voluta; ti sei fatta raccomandare da una donna ben nota alla polizia e a noi; vorresti darmi ad intendere che era un fine innocente e puro quello il quale ti consigliò a valerti dei suoi servizi e di andare nella sua casa? eh, innocentina?

La donna si mise ancora a ridere. Sapeva bene che abusava infamemente dell’inesperienza di questa infelice, ma l’aveva già fatto tante volte; s’era arricchita a quel modo; e soleva sempre dire a se stessa: chi per troppi scrupoli non sa tirar l’acqua al suo molino finisce un giorno o l’altro miseramente sulla paglia.

La sua furberia e naturale perspicacia, la lunga esperienza acquistata in queste cose, le avevano insegnato a leggere chiaramente nell’animo delle disgraziate dalle quali traeva, come un proprietario di schiavi, il suo guadagno e le sue ricchezze.

Vedeva bene nell’animo di questa, il candore verginale, l’ingenuità dell’innocenza. Ma che cosa gliene importava? Non era anzi una ragione di più per tenersela, non erano quelli dei pregi che i suoi clienti le avrebbero pagato a caro prezzo? che cosa v’era nel mondo, per quella donna, che non si potesse vendere?

Essa si sentiva ormai sicura del fatto suo. Aveva troppi mezzi disponibili per dubitare che questo pesciolino uscisse vivo dalla rete.

giovedì 4 giugno 2009

Il pianto le troncava ad ogni momento la parola

‒ Sono una povera ragazza, ma una ragazza onesta; voglio lavorare, servire, guadagnarmi il pane onoratamente, ‒ e il pianto le troncava ad ogni momento la parola, ‒ quella vecchia di stamane m’ha ingannata, m’ha fatto credere che sarei entrata qui in un servizio... per bene... cercavo del lavoro io... sono inesperta, sono ignorante, non sapevo... non potevo figurarmi... oh lei signora che sa tutto questo meglio di me m’intenderà... Permetta che vada via subito. Non importa che sia ormai quasi sera, che io non conosca nessuno, che non sappia dove andare, non importa, purché vada via.

La signora congedò con un cenno l’altra donna che stava sull’uscio per udire curiosamente questo dialogo, poi, rivolgendosi alla Barberina, con un’affabilità un po’ stentata, cercò di persuaderla che nella sua casa avrebbe guadagnato assai più denaro che altrove, che v’avrebbe fatta una vita lieta, facile, oziosa, in mezzo a compagne gaie e giovani, che forse v’avrebbe potuto trovare qualche persona che innamoratasi di lei avrebbe migliorato ancor più la sua posizione. Che cosa poteva ella sperare invece dallo stare al servizio? Degli stenti, delle fatiche, dei rimproveri; una vecchiaia precoce e un letto all’ospedale. La signora, disse tutte queste cose con tranquillità e convinzione, col tono autorevole di chi parla per esperienza e conosce il mondo da un pezzo.

Barberina l’ascoltava trepidante, con un ribrezzo misto di paura. Quella donna le faceva orrore.

‒ Signora, ‒ disse, ‒ mi lasci andar via. Non voglio, non debbo, non posso star qui. È impossibile che lei creda le cose che mi dice; vuol certamente mettermi alla prova, vuol vedere se non sono anch’io una cattiva ragazza.

La signora si mise a ridere. La singolare ingenuità di questa giovanetta che la credeva capace di far ancora simili prove, la faceva ridere. Ma cercò di nuovo di convincerla, di corromperla, di farle intendere tutti i vantaggi di una vita allegra e spensierata, tutte le probabilità di far grossi guadagni, e, quasi calcolasse il valore di un capitale, le parlò della sua innocenza, della sua giovinezza, dei suoi pregi personali.

Barberina l’interruppe indignata. Era un’indignazione violenta, primitiva, piena di slancio e d’ardire.

La signora ascoltò impassibile quelle parole impetuose, e sopportò l’urto di quello sdegno con un sorriso freddo e ironico.

‒ Mi faccia dare le mie vesti, signora, perché io possa andar via subito subito, ‒ diceva la fanciulla.

Era l’ultima volta che la povera Barberina parlava con quella fiera sicurezza credendo di poter disporre liberamente di sé.

Non sapeva ancora che era già schiava o quasi, venduta a quella donna, alla quale senza saperlo era già debitrice degli abiti e delle biancherie che portava e delle quali non avrebbe forse mai potuto rimborsarla; non sapeva che liberata fors’anche dal vincolo che la legava alla padrona di quel luogo, ve n’era un altro, che non poteva più spezzarsi, un vincolo di vergogna e di schiavitù assoluta; imposto e sanzionato dalla legge che l’avrebbe data ancora, uscendo di lì e perché usciva di lì, al pubblico, che l’aveva fatta sua.