giovedì 4 giugno 2009

Il pianto le troncava ad ogni momento la parola

‒ Sono una povera ragazza, ma una ragazza onesta; voglio lavorare, servire, guadagnarmi il pane onoratamente, ‒ e il pianto le troncava ad ogni momento la parola, ‒ quella vecchia di stamane m’ha ingannata, m’ha fatto credere che sarei entrata qui in un servizio... per bene... cercavo del lavoro io... sono inesperta, sono ignorante, non sapevo... non potevo figurarmi... oh lei signora che sa tutto questo meglio di me m’intenderà... Permetta che vada via subito. Non importa che sia ormai quasi sera, che io non conosca nessuno, che non sappia dove andare, non importa, purché vada via.

La signora congedò con un cenno l’altra donna che stava sull’uscio per udire curiosamente questo dialogo, poi, rivolgendosi alla Barberina, con un’affabilità un po’ stentata, cercò di persuaderla che nella sua casa avrebbe guadagnato assai più denaro che altrove, che v’avrebbe fatta una vita lieta, facile, oziosa, in mezzo a compagne gaie e giovani, che forse v’avrebbe potuto trovare qualche persona che innamoratasi di lei avrebbe migliorato ancor più la sua posizione. Che cosa poteva ella sperare invece dallo stare al servizio? Degli stenti, delle fatiche, dei rimproveri; una vecchiaia precoce e un letto all’ospedale. La signora, disse tutte queste cose con tranquillità e convinzione, col tono autorevole di chi parla per esperienza e conosce il mondo da un pezzo.

Barberina l’ascoltava trepidante, con un ribrezzo misto di paura. Quella donna le faceva orrore.

‒ Signora, ‒ disse, ‒ mi lasci andar via. Non voglio, non debbo, non posso star qui. È impossibile che lei creda le cose che mi dice; vuol certamente mettermi alla prova, vuol vedere se non sono anch’io una cattiva ragazza.

La signora si mise a ridere. La singolare ingenuità di questa giovanetta che la credeva capace di far ancora simili prove, la faceva ridere. Ma cercò di nuovo di convincerla, di corromperla, di farle intendere tutti i vantaggi di una vita allegra e spensierata, tutte le probabilità di far grossi guadagni, e, quasi calcolasse il valore di un capitale, le parlò della sua innocenza, della sua giovinezza, dei suoi pregi personali.

Barberina l’interruppe indignata. Era un’indignazione violenta, primitiva, piena di slancio e d’ardire.

La signora ascoltò impassibile quelle parole impetuose, e sopportò l’urto di quello sdegno con un sorriso freddo e ironico.

‒ Mi faccia dare le mie vesti, signora, perché io possa andar via subito subito, ‒ diceva la fanciulla.

Era l’ultima volta che la povera Barberina parlava con quella fiera sicurezza credendo di poter disporre liberamente di sé.

Non sapeva ancora che era già schiava o quasi, venduta a quella donna, alla quale senza saperlo era già debitrice degli abiti e delle biancherie che portava e delle quali non avrebbe forse mai potuto rimborsarla; non sapeva che liberata fors’anche dal vincolo che la legava alla padrona di quel luogo, ve n’era un altro, che non poteva più spezzarsi, un vincolo di vergogna e di schiavitù assoluta; imposto e sanzionato dalla legge che l’avrebbe data ancora, uscendo di lì e perché usciva di lì, al pubblico, che l’aveva fatta sua.

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