sabato 28 febbraio 2009

Il vero genio melefico del nostro tempo

Così non rimane al povero che l’ospedale; ma quell’ospedale soltanto che accoglie tutti indistintamente, che ha direttori e amministratori laici, nel quale i medici governano liberamente; che è in tutto e per tutto un’istituzione civile. Là soltanto il povero si sente a casa sua, ci va senza esitazioni, c’entra senza difficoltà, sa che c’è, dov’è, come fosse a due passi da casa sua; ne parla, lo teme, ma nello stesso tempo lo riguarda come un asilo sicuro per le ore di sofferenza. Questa popolarità, l’ospedale la trae in gran parte, come abbiamo già detto, dalla continua necessità che n’ha il povero, dal gran concorso di gente che ci va, ma anche dal sentimento di sicurezza e di riposo che prova ognuno sapendo d’essere in un luogo che accoglie indistintamente tutti coloro che soffrono, che non fa distinzioni religiose, che non esige certificati o raccomandazioni, che non è diretto da una casta, da un ordine speciale di persone, da frati piuttostoché da preti, ma che è veramente istituzione civile, cosa che emana direttamente dalla vita della città e del Comune.

Così, fintanto che la carità non sia diventata compiutamente una virtù civile e non sia riassorbita del tutto dalla società colta e liberale che cammina sulla via del progresso, fintanto che essa non sarà il dovere d’ogni cittadino come lo era prima di ogni credente, fintanto che non sarà distrutta in noi l’abitudine del riguardare la carità come un monopolio religioso, un’incombenza speciale di alcuni, e che il dovere di praticarla non riposi ugualmente sopra di tutti, individualmente non meno che collettivamente, sino allora non potranno mai cessare gli abusi, le indifferenze crudeli, le mostruose negligenze che si avverano ogni giorno sotto ai nostri occhi.

E chi di quegli abusi o dolori ha soltanto compassione senza adoperarsi per aiutare laddove havvi bisogno di soccorso, è forse ancora più colpevole degl’indifferenti stessi, perché egli ha provato l’eccitamento a compiere un dovere e non l’ha compiuto; e se v’ha grand’errore commesso contro la società intera, non è quello del fare il male, ma dell’omettere scientemente di fare il bene; è la mancanza d’energia; la fiacchezza nell’operare. Da ogni cosa che lavora attivamente nasce qualche nuova forma di vita; dal male può nascere lo spirito di ribellione, può venire il bene; è dall’inerzia soltanto che non verrà mai nulla di buono; e la mancanza d’energia è forse nel mondo la sola cosa che può meritarsi veramente il nome di male, ed è il vero genio melefico del nostro tempo.

Ogni epoca storica ebbe il proprio diavolo, e lo spirito del male delle nazioni invecchia con esse, ma dura sempre; vispo e giovane, nel medioevo violava la legge religiosa, anziché combattere la religione; vecchio e reazionario, combatté più tardi le aspirazioni della società civile; fatto peggiore col tempo, il diavolo nostro ci insegna ad essere fiacchi e indifferenti; è un cinico sonnolento che fugge dinanzi alle determinazioni energiche, come il diavolo lieto e birichino del cinquecento fuggiva dinanzi all’acqua benedetta.

martedì 24 febbraio 2009

L’Istituto di beneficenza è quasi sempre ancora in mano del prete

L’Istituto di beneficenza è quasi sempre ancora in mano del prete; ma il prete non è più, come lo era una volta, l’intermediario fra il bisognoso e la carità che lo soccorre; egli non è più senonché un isolatore in mezzo alle lotte della vita civile che si agitano intorno a lui; non ha più la pace dell’animo e il potere morale che in altri tempi lo mettevano in grado d’essere utile, che facevano derivare per esso un vantaggio dall’apparire buono e dal praticare la carità. Adesso il prete, buono o cattivo, deve pensare a sé; al pericolo che corre la sua religione; ha l’animo turbato, e incessantemente distratto dalle piccole cure del suo ministero. Il denaro che ha non lo può più spendere per il povero, soltanto perché è povero; un’altra e più alta miseria implora il suo aiuto; è la religione stessa, è la sua fede che egli deve soccorrere, che mendica e che soffre. Volete che quel prete soccorra l’incredulo, quando ai suoi occhi, per opera degli increduli, tutta la vita ideale delle generazioni avvenire è minacciata di morte morale? Che cosa volete che presso a questa sciagura gli appaia ancora degna di commiserazione; e volete che egli sia caritatevole senza chiedere se colui che lo invoca è credente, o no? se è un nemico della sua Chiesa o un amico di essa? Volete che non faccia parzialità, quando la sua Chiesa mendica dal mondo intero, e che il denaro che gli chiede un avversario bisognoso, lo può dare ad essa?
E quel prete ridotto ormai quasi necessariamente in codesta condizione morale è pur sempre a capo della beneficenza. Dispensatore parziale, anche se onesto e sincero, perché l’esercitare la carità imparzialmente sarà sempre per esso un voler mancare ai doveri del suo stato, egli isterilisce con la sua presenza lo spirito dell’Istituto che presiede. La sua fede, nella quale altre volte s’alimentava la carità, oramai la paralizza. E la società che gli ha tolto volonterosa l’antico prestigio, che gli ha tolto la volontà e la possibilità di essere utile e caritatevole, ha però lasciato nelle sue mani l’opera di beneficenza, il denaro del povero, sapendo segretamente che non se ne serve per esso, ma che invece l’adopera molte volte contro la società civile, la sola sulla quale d’ora in avanti il povero potrà contare. E lo deride, lo sprezza, o non se ne cura; eppure gli abbandona il più alto e delicato ufficio sociale: quello della carità.

E le signore Beppe e le signore Rose, che a poco a poco sono diventate anch’esse indifferenti alla religione, e che, quando non si sentono male e che hanno pranzato bene professano teorie da libere pensatrici, e non hanno più, come le loro nonne, le interminabili sedute col confessore e le chiaccherate sulle porte dei conventi e le equivoche amicizie con i fratacchioni del vicinato, ora quelle portinaie e bottegaie, non sanno a che santo raccomandarsi, quando capiti loro un caso come quello della Barberina. Non avendo più co’ preti la dimestichezza di una volta, né colle monache la intimità d’altri tempi, non avendo con le bacchettone del vicinato, scandalizzate dalla loro incredulità, le buone relazioni che avevano in passato, a chi chiederebbero un consiglio? E senza un consiglio che venga da quella parte, come fare?

In quei casi si pensa che con certe raccomandazioni, con la buona volontà dei signori, forse si potrebbe sapere e ottenere e concludere qualcosa. Ma quelle raccomandazioni come averle? Quei tali signori dove trovarli? E le difficoltà come le distanze sembrano, e talvolta anche sono, insuperabili.

lunedì 23 febbraio 2009

Quanta scienza dovrà rimpiazzare la fede!

Nel passato, su quella via dell’asilo o del ricovero il bisognoso trovava sempre una guida e un aiuto; alla sua ignoranza soccorreva un consiglio che gli appariva come un’emanazione dello spirito stesso che aveva creato le istituzioni di beneficenza.

Quella guida, quel consiglio, era la carità religiosa.

Il prete e il credente, caritatevoli il più delle volte per interesse e ipocrisia, erano però talvolta ammirabili e grandi di abnegazione e di sacrificio, e buoni e cattivi la carità l’insegnavano tutti; e l’insegnamento era buono, fosse bugiarda o sincera la bocca che lo impartiva.

Ma l’intenso e fervido sentimento religioso che alimentava quella carità s’esaurisce ogni giorno; la fede muore nelle classi colte, si raffredda e s’estingue nel popolo, e la carità religiosa, colpita con le credenze, infiacchisce anch’essa senza che una nuova forma di beneficenza venga abbastanza a sostituirla col nome di carità civile. Eppure se v’ha cosa che dovrebbe farci sopportare perfino una religione non buona, sarebbe la carità; se v’ha virtù senza la quale ogni società, e fosse la più colta, non merita più il nome di civile, quella virtù è la carità. Ma anche in questa lotta della ragione contro l’assurdo è potente sempre la cieca stupidità che colpisce le cose buone con le cattive e che non sa ricostituire sotto altra forma quello che perde nella lotta.

Così, a misura che cresce quell’antagonismo, a misura che il prestigio religioso declina, e che la spensierata indifferenza del ricco, che ricrea l’intelligenza in codeste lotte, impoverisce sempre più il bisognoso senza compensarlo in verun modo di quello che gli toglie, così si fa sempre più il vuoto intorno al povero, il soccorso s’allontana sempre più da lui, il mondo ideale che lo confortava, dilegua senza che nella realtà gli venga sostituito il benefizio di una solida istruzione; e se nelle ore di tribolazione cercherà un soccorso sulla stessa via, ove i suoi avi incontravano il prete e si prostravano con esso dinanzi agli altari, dubitiamo assai che incontrandovi invece un libero pensatore e vedendo su quegli stessi altari rovesciati, la dea Ragione o l’immagine dell’uomo scimmia, ne tragga le consolazioni che s’ebbero i suoi padri.

E a questa miseria morale e materiale, che accresce di tanto la miseria già esistente nel mondo, non si riparerà così presto. Stolto e puerile è lo spirito che spinge i più alla demolizione, e gli animi loro sono quasi sempre incapaci di misurare la grandezza e l’efficacia della cosa che demoliscono.

L’intelletto grossolano dei demolitori non capisce quanta grandezza di vita civile, quanta fede gagliarda nell’opere buone, quanta intensità di lavoro e di forze ci vorrà per ricostituire nel mondo cosa che valga e superi le religioni perdute. Quanta scienza dovrà rimpiazzare la fede, e quanto ordine e armonia nella vita sociale dovrà emanare dalla nuova forma di carità che non sarà più religiosa ma civile! Per ora, alla demolizione non tien dietro riedificazione alcuna, e quanto crolla da una parte, non si riedifica dall’altra, per buona che fosse la cosa caduta.

sabato 21 febbraio 2009

L’opera di beneficenza

Le ragioni sono varie e complicate, e se mi permetto di esporne qui brevemente alcune, quelle che a me sembrano le principali, spero che il lettore me lo perdonerà, vedendo quanto questo argomento dell’utilità e popolarità degli Istituti di beneficenza tocchi da vicino il soggetto del nostro racconto.

La maggiore popolarità della quale gode l’ospedale di fronte agli altri Istituti, si può in parte spiegare facilmente per la maggior necessità che hanno di esso le classi povere. Vi sono peraltro Istituti la cui necessità è pure grandissima, che sono creati al fine di rimediare a sofferenze che in alcune città o provincie si presentano più frequenti, senza che per questo riesca loro di escire da una certa penombra inerte e misteriosa, che li fa rassomigliare per molti a delle astrazioni, e per altri più timidi, a delle individualità elette, aristocraticamente severe, non avvicinabili dal volgo. Ma perché il povero, obbietteranno molti, non cerca da sé di conoscere meglio questi Istituti creati unicamente per soccorrerlo, invece di lasciarsi andare a prestar fede ai pregiudizi che glieli fanno disconoscere? Non è questa per parte del povero un’ignoranza colpevole che rassomiglia quasi all’indifferenza? Perché il povero, risponderemo, non soltanto è timido verso persone o cose che non vede e non conosce, e con le quali non può trattare direttamente, ma è anche difficilmente in grado di poter superare, senza gravi difficoltà, certe distanze morali, e di vincere certi pregiudizi che governano dispoticamente l’animo delle classi meno colte della società.

L’ingegno nostro non può fare lo sforzo di superare ignote e astratte distanze morali, né far subentrare il calcolo chiaro della ragione alle facili e indefinite leggi del pregiudizio, quando non vi è stato educato dall’abitudine. Tanto più il corpo sarà avvezzo e indurito alla fatica fisica, tanto più avrà contratto l’abito di non vedere nello sforzo, sia della volontà, sia dei muscoli, che il mezzo di vincere una difficoltà materiale ed evidente, quasicché non vi fosse possibilità di vincere senonché ciò che è evidente e materiale, e per questa convinzione tanto più difficile gli apparirà ogni altro sforzo, il quale sia invece diretto a superare una difficoltà astratta che sfugge al dominio dei sensi e dell’energia fisica.

In coloro, che sono cresciuti così nell’inazione dello spirito e nella fatica dei muscoli, l’intelligenza non sa più lavorare senza l’evidenza della meta reale e l’eccitamento dell’azione del corpo. Mancando ad essi coll’istruzione, i principali istrumenti per il lavoro del pensiero, hanno bisogno degl’istrumenti del lavoro materiale per compiere un disegno qualsiasi. Vincere un pregiudizio, superare una distanza morale, penetrare con l’indagine e il ragionamento laddove non penetrano col fatto, sono opere morali dinnanzi alle quali i più fra loro sono impotenti.

Dovrebbe dunque l’opera di beneficenza essere istituita in modo che essa per sua natura e organizzazione fosse già tanto vicina al povero che vuol soccorrere, da non dover egli superare distanza alcuna per arrivarvi.

Questo difetto, assai meno grave nel passato, e ne spiegheremo subito la cagione, va crescendo nel presente, e la distanza che già tante volte separò il bisognoso dai soccorsi della beneficenza va diventando ogni giorno più grande.

venerdì 20 febbraio 2009

Molti fra i miei lettori faranno forse delle obiezioni

Giunti a questo punto della nostra narrazione, molti fra i miei lettori faranno forse delle obiezioni; diranno che in tutte le principali nostre città vi sono istituti di beneficenza, asili per le giovanette abbandonate, per i bambini, per gli infermi; istituti fondati coll’intenzione di aiutare precisamente le infelici che si trovassero nelle condizioni della povera Barberina; ed è questa un’osservazione vera, ed io posso aggiungere di mio, che nella civile e colta città italiana, nella quale seguiva il fatto che sto narrando, di tali istituti ve ne sono parecchi e commendevoli, e fatti in modo che la Barberina avrebbe potuto senza difficoltà presentarsi ad uno di essi ed esservi accolta e protetta. Ma come poteva essa saperlo, se neppure la signora Rosa e la Beppa gliene avevano parlato? Perché né la Rosa, né la Beppa sapevano esattamente se ci fossero, o dove fossero, e sebbene qualchevolta n’avevano sentito parlare, o n’avevano letto il nome in qualche cronaca di giornale, pure credevano fossero luoghi ove senza raccomandazioni di signori o di preti o di monache non ci si potesse andare. E questi Istituti apparivano loro piuttosto come attuazioni di un’astratta teoria di carità, inventata dai ricchi, che qual fondazioni popolari e pratiche da poter servire veramente ai bisogni immediati e quotidiani della povera gente. E così accade che giornalmente, sotto le mura stesse di ospizi e ricoveri, seguano tristi casi di abbandono e di corruzione, contro i quali sarebbero stati specialmente fondati quegl’Istituti di beneficenza, che finiscono soltanto col riescir utili a coloro che non sono tanto miserabili o tanto isolati da non poter aspettarsene l’aiuto. E così avviene che i casi peggiori, i più urgenti, quelli che hanno maggior bisogno di soccorso, perché ignorano perfino che il soccorso ci sia, non trovano che di rado l’aiuto che si meriterebbero.

Questo fatto incontestabile, dell’ignoranza nelle classi povere di Istituti creati allo scopo di soccorrerle, questo avverarsi continuamente di tali ignoranze, il trovar che l’esatta conoscenza della loro esistenza sfugge perfino alla curiosità delle signore Rose e delle signore Beppe, vale a dire delle portinaie e delle bottegaie, è una prova della loro insufficenza e più che insufficenza, è prova di uno stato di cose contrario allo spirito stesso che informa la loro istituzione.

Perché mai questi ricoveri creati con fini specialmente determinati, che si limitano a servire un bisogno urgente della miseria o del dolore, non sono tanto popolari, tanto conosciuti come dovrebbero essere, e non s’acquistano fra il popolo il diritto di vivere la vita di un’individualità cara, famigliare, protettrice? Perché non sono essi come l’ospedale centrale e il manicomio, noti a tutti, e in modo così preciso, che ciascun povero che ne chieda la via ad un altro sia sicuro di averne l’indirizzo, o di saperne i particolari?

Perché questa diversità? Come accade che le madri e i padri di famiglia non sieno confortati, pensando che vi sono ospizj nei quali le loro figlie esposte per la miseria e l’abbandono alle corruzioni dei tristi, troverebbero soccorso o rifugio, e che dei giovanetti traviati da cattivi compagni vi troverebbero lavoro e disciplina; che più disgraziati e già colpevoli, dopo espiata una pena, potrebbero coll’aiuto di esperti educatori ritentare la prova del riuscir buoni e utili alla società? E come mai questi stessi genitori, che trovano tanto aiuto negli Istituti di beneficenza, non ne propalano a tutti le lodi e non fanno loro acquistare una vera popolarità?

Perché questi enti morali, specialisti filantropici di malattie morali, non sono noti al popolino come l’oculista, il cavadenti, il professore di medicina che si è acquistato un nome nella cura speciale di una malattia?

giovedì 19 febbraio 2009

Per lei era tutt’uno

Quell’abisso formicolava di gente, di dolori, di miserie, mentre una minoranza felice passava accanto ad esso senza paura e senza vertigini.

Barberina piangeva.

L’ortolana la lasciò fare un poco, poi disse.

‒ Su via, bambina, che cosa fate? Non potete stare tutto il giorno qui in istrada, davanti alla mia bottega; fatevi coraggio.

‒ Ma dove debbo andare? ‒ esclamò la ragazza con angoscia.

La donna non rispose subito. Per un momento misurò anch’essa con la mente pigra e ottusa la profondità di quel dolore; ma poi, temendo che il suo egoismo non bastasse a toglierle dal pensiero quell’immagine straziante, fece uno sforzo di volontà e rispose:

‒ Non vi disperate; quello che non trovate qui, potete trovarlo facilmente altrove.

‒ Ma dove? ‒ mormorò la Barberina singhiozzando.

In quel punto una donna venne per comperare delle susine. Era una vecchia vestita civilmente, ma con un abito logoro e sudicio, un cappello unto e bisunto, che poteva essere stato bello in altri tempi, ma che ormai non era soltanto fuor di moda, ma quasi quasi non stava più insieme, tanto era sdruscito e usato. Quella donna, mentre comprava le susine, scegliendole in un paniere ad una ad una, toccandole tutte con delle dita magre e lunghe, di un color livido che le faceva sembrar ancor più sudice di quello che erano, sbirciava di tempo in tempo la Barberina con curiosità maliziosa. La povera ragazza non se ne avvedeva. Guardava la Beppa che pesava le susine, e il fondo della bottega pieno di panieri, fra i quali ruzzavano i bambini dell’ortolana; dietro a lei, nella via aperta, passava incessantemente, stridula e chiassosa, una corrente umana, che non si chetava e che non riposava mai. Barberina pensava alla signora Rosa, alla Beppa, alla portineria umida e buia, e alla bottega oscura che le stava dinanzi, ci pensava con desiderio, con invidia, stando nella strada, quasi fosse nel mezzo di un fiume guardando con angoscia la riva.

Sperava che la Beppa le rivolgesse spontaneamente la parola, e l’invitasse a restare, o almeno le indicasse dove poteva andare. Ma la Beppa non la guardava neppure.

La poveretta, vergognosa, umiliata, chinò il capo, e acciecata dalle lagrime che le pendevano fra le palpebre, fece un passo e si scostò dalla bottega. Non sapeva se doveva volgersi a destra, o a sinistra. Per lei era tutt’uno. Se avesse potuto indovinare la via che, traverso le grandi campagne che si stendevano intorno alla città, conduceva ai piedi de’ suoi monti; se avesse saputo come fare per arrivarci, sarebbe andata per quella via, così sola com’era, stanca e debole, e avrebbe camminato notte e giorno.

Ma essa ricordava che i suoi monti erano lontani; rammentava che glieli avevano fatti vedere un giorno i bambini della sua signora, e che le erano apparsi quella volta come una sfumatura azzurra e lucente all’orizzonte, tanto distanti, che il vederseli così lontani l’aveva allora accorata profondamente; adesso ripensava a quella sfumatura azzurra, vi pensava con terrore e si sentiva proprio e interamente abbandonata da tutti.

martedì 17 febbraio 2009

Era sull’orlo, cadeva.

Era sull’orlo, cadeva.

La Barberina stese una mano per reggersi in piedi: sentì un umidiccio freddo sotto alle dita e una cosa molle che cedeva e s’apriva sotto il peso della sua mano: era un pomodoro.

L’ortolana con voce stridula e dura la rimproverò. Gli occhi della Barberina s’empirono di lagrime, e non rispose.

Rialzò il capo e guardò nella strada... Dove andare, Dio santo, dove?

Ma tutta quella gente non capiva, non sentiva dunque nulla? La disperazione di quella giovanetta, quasi ancora bambina, che piangeva lì in mezzo a loro, nessuno fra tanti l’intendeva? Eppure passavano delle mamme portando seco con amore, sorridenti e attente i loro bambini, c’erano delle donne che rimbalzavano impaurite soltanto perché la ruota di una carrozza era passata troppo vicino alla loro veste, altre spaventate indietreggiavano perché il bambino dell’ortolana, annaffiando il lastricato dinanzi alla bottega, aveva minacciato di schizzarle coll’acqua, altri si salutavano premurosi o s’incontravano sorridenti; era dunque tutta quella gente capace anch’essa di sentire paura e affetto, e mostravasi anzi puerilmente esagerata nella propria sensibilità; eppure alla sua angoscia non v’era fra tutta quella gente chi prestasse attenzione. Ad essa, annientata dalla disperazione del più crudele abbandono, non riusciva di far intendere a nessuno quanto soffriva! Chi se ne avvedeva?

In quel momento ricordò le belle botteghe già vedute altre volte nelle vie principali della città. Ricordò con chiarezza morbosa tanti piccoli oggetti di lusso, tante piccole invenzioni ingegnose che v’avea ammirate, le quali dovevano servire alle necessità della vita dei ricchi; tutte cose che non aveva mai più rammentate dal giorno in cui i bambini della sua signora gliele avevano mostrate e descritte con orgoglio e loquacità infantile. Ora, a un tratto, le tornavano alla mente.

Come mai, pensava la fanciulla, quelli stessi che hanno inventate delle macchine che cuciono da sé, delle lenti maravigliose sulle quali rimane impressa per sempre l’immagine umana, dei fili miracolosi che portano lontano le parole con la velocità del pensiero, delle macchinette semplici come balocchi da bambini che pure ti sanno fare mille e mille gingilli graziosi e inutili, come mai quella stessa gente tanto attenta ai bisogni degli altri, tanto sapiente e ingegnosa nel soddisfarli, non aveva mai preveduto un bisogno crudele come il suo, e non aveva, prevedendolo, inventato nulla per rimediarvi?

Nella grande città dove c’era tutto, tutto quello che il capriccio poteva desiderare, dove ad ogni passo s’affacciava alla vista qualcosa di inatteso, di maraviglioso, dove a detta di tutti non mancava niente, per lei che soffriva tanto non ci doveva essere nulla, neppure chi le dasse un consiglio?

E alla Barberina pareva che i suoi occhi lagrimosi fissassero un vuoto smisurato, un abisso nero intorno al quale la civiltà festante danzava indifferente e sdegnosa.

lunedì 16 febbraio 2009

La giovanetta guardava supplichevole l’ortolana

La credeva al servizio, e sperava riavere la sua clientela. Ma quando la ragazza, con voce debole e interrotta, tutta confusa e vergognosa, come avesse lei la colpa di ogni cosa, le raccontò quanto era accaduto, allora l’ortolana fece un viso serio e cambiò l’aria di amichevole interessamento che aveva avuto prima in quella di una protezione un poco altera.

‒ Gran ciacciona quella Rosa portinaja! ‒ disse, ‒ la mi va ad inventare a questa povera ragazza che ho tanti servizi!... N’avevo, sì, la settimana scorsa, ma ora si son tutti accomodati.

E intanto misurava una libbra di susine ad un bambinetto.

‒ E quella signora... quella della quale aveva parlato la signora Rosa?

‒ Se le dico che quella signora Rosa è una gran chiacchierona!

E intanto sceglieva dei pomodori in una paniera e ne dava con delle patate ad una serva; ma la serva non volle quelle patate, e l’ortolana dovette andare in fondo alla bottega a prenderne delle altre e lasciare a mezzo il discorso.

Barberina era sulle spine.

Ritta davanti alle paniere, nella strada, urtata da quelli che passavano, sentendosi a mancare per la debolezza e per la fame, eppure reggendosi per lo sgomento che l’invadeva di nuovo, quasi ancor più terribile di quello di prima, aspettava ansiosa che l’ortolana finisse il suo discorso.

Finalmente la Beppa sbrigò la serva e ricominciò a parlare:

‒ Quella Rosa è proprio senza coscienza; va ad inventare di queste cose ad una povera disgraziata! Ma non lo sa forse meglio di me, lei che fa la portinaja, che in questa stagione tutti i signori sono in campagna? Cara la mia ragazzina, se sapesse quante ne vengono qui a chiedermi un servizio! E tutte ragazze per bene, robuste, svelte, certamente quanto lei. ‒ E diede una sbirciata al viso estenuato e pallido della ragazza. ‒ Ce ne vorrebbero dei padroni!

‒ Ma non conosce proprio nessuno che abbia bisogno della donna di servizio? Non importa che il lavoro sia duro, faticoso, grossolano...

La giovanetta guardava supplichevole l’ortolana. Essa era nella strada tutta sola, e il rumore confuso della città copriva la sua voce debole, quasi infantile. Quei rumori l’assordavano nello stato di debolezza e di paura nel quale si ritrovava.

Per un momento pensò al silenzio tranquillo e solenne che regnava nei suoi monti.

Fu quella un’alta visione di pace, un sogno ad occhi aperti; poi l’urto di un uomo che passava, le grida dei venditori di giornali, il rumore delle carrozze, dei barocci, delle voci e dei passi di tanta gente la stordirono di nuovo.

Quel rumore e quella città diventavano per essa una voragine.

domenica 15 febbraio 2009

Si sentiva debole e aveva fame

Quando la Barberina si trovò sola, fuori nella strada, camminò macchinalmente verso la bottega dell’ortolana.

Si sentiva debole e aveva fame. Nella sua grande impazienza di escire dall’ospedale aveva perfino dimenticato di mangiare, e il suo stomaco da convalescente non poteva tollerare un lungo digiuno.

Quella fame intensa accresceva nella povera ragazza il sentimento angoscioso del suo isolamento. Veniva a rammentarle con una prova fisica il suo triste stato.

Barberina camminava adagio. Aveva paura della gente, cercava di passare fra essa piano piano; avrebbe voluto camminare in punta di piedi per non farsi sentire, e rimpicciolirsi per modo da non essere veduta.

Le pareva, nell’esagerazione di un sentimento che le faceva provare con spavento quanto ella fosse senza difesa e quanto orribile fosse il suo stato di abbandono, le pareva di camminare nuda nella folla, nuda di una nudità morale quasi ancor più vergognosa di sé della fisica.

Sembravale che tutti dovessero accorgersi, passandole accanto, che erano vicino ad un dolore intenso, ad una disperazione piena di paure. Ed essa si vergognava della sua disperazione in mezzo a quella gente che le sembrava felice.

Eppure, quando si sentiva più tranquilla, avrebbe voluto raccomandarsi a ciascuna di quelle persone isolatamente, in special modo se erano donne o vecchi; ma vedendole così tutte insieme le mettevano paura, e il loro numero non soltanto la scoraggiava sempre più, ma le faceva provare più intensamente il suo isolamento; e pareva che ognuna di esse accrescesse il vuoto intorno a lei, e le togliesse una parte di quello che avrebbe potuto essere suo.

Così è sempre per tutti cosa triste e paurosa il trovarsi nelle ore di afflizione in mezzo alla moltitudine, quasi andassero sempre smarrite in essa le virtù delicate e gentili del singolo individuo, o che la forza di associazione delle cose cattive prevalesse nelle grandi agglomerazioni di persone a quella delle cose buone.

La Barberina aveva una gran paura di quella folla.

Giunta dall’ortolana, avrebbe voluto entrare subito nella bottega bassa ed umida, tutta piena di paniere, di legumi, di piatti e vasi in terraglia, e nascondersi affatto nel fondo di essa; ma la bottega era piena; un uomo vuotava precisamente allora, nel piccolo spazio rimasto vuoto nel mezzo di essa, un paniere d’erbe, e i bambini della Beppa occupavano quel po’ di posto che ancora rimaneva libero. La Barberina dovette dunque fermarsi in istrada, dinanzi alle paniere delle pesche, dell’uva e delle susine, che l’ortolana aveva esposto in bell’ordine, separate le une dalle altre da lunghe fila rosse di pomodori.

La Beppa fece buona accoglienza alla Barberina.

domenica 8 febbraio 2009

S’asciugò le lagrime dagli occhi senza parlare

La portinaja, che si puliva le lenti degli occhiali con un vecchio fazzoletto di cotone color turchino, ebbe un po’ di compassione.

‒ L’ortolana qui sotto… la Beppa... La conosce la Beppa, ‒ disse alzando la voce, perché le sembrava che la ragazza non udisse le sue parole.

‒ Sì... ‒ mormorò con voce fioca la Barberina.

‒ Ebbene, la Beppa sa di parecchi servizi, me ne parlò ieri, e tutti buoni; c’era una signora che cercava una donna subito. Vada dalla Beppa, vada a nome mio; dica che è la Rosa portinaja che la manda, e che venga pure da me chi vuole a prendere informazioni che le darò buone.

‒ Grazie, ‒ disse la ragazza; e fe’ una mossa per levare l’involto dei suoi panni dal davanzale dello sportello; ma poi lo lasciò stare, perché non trovò in sé la forza di muoversi. Non poteva risolversi a lasciare quel luogo od andar via da quella casa.

‒ Non perda tempo, ‒ tornò a dire con tono più duro la portinaja. ‒ Quel servizio può esserci ancora se la si spiccia. Vada; qui, come le ho già detto, non ci può stare. Il padrone non vuol chiacchiere. Ora dia retta a me, vada dalla Beppa, e qualcosa le capiterà. Si spicci, e se vuol tornare un altro giorno, venga pure.

Ormai bisognava che, per amore o per forza, la Barberina se ne andasse. S’asciugò le lagrime dagli occhi senza parlare, prese il suo involto, riannodò il fazzolettino che portava sul capo, e fece una mossa lenta per scostarsi dallo sportello. Provava una tenerezza indefinibile per quelle mura, per quella vecchia e oscura portineria, per quelle scale che mettevano al quartiere che era stato abitato dai suoi padroni, e del quale vedeva le finestre dal posto in cui era. L’angoscia di quel momento prestava ad ogni cosa già veduta un valore incalcolabile; a misura che il sentimento d’essere abbandonata da tutti le si faceva più vivo, nasceva fra essa e quella vecchia casa, fra quelle mura bigie e quelle penombre malinconiche un’affinità misteriosa, un legame nascosto, pieno di tenerezze e di ricordi.

Alla Barberina s’affacciava con angosciosa insistenza la certezza che, se usciva di lì, non vi sarebbe mai più tornata, non avrebbe mai più riveduto, né quella casa, né quella portineria, né quella signora Rosa, che era il solo essere vivente che conoscesse un poco nella città.

Chinò il capo e fece un cenno alla portinaja, come volesse parlarle, ma la parola non le uscì dalla gola, stretta convulsivamente. Fece alcuni passi per uscire, ma sull’uscio si fermò di nuovo.

‒ Signora Rosa, ‒ disse piano, ‒ se la Beppa non mi trova un servizio subito, potrei tornare all’ospedale?

‒ All’ospedale! ‒ esclamò questa. ‒ Che, le ha dato volta il cervello? Ma se è guarita, che cosa la ci vuol fare all’ospedale? Crede che sia una locanda? Dio buono, ragazzina, non la ci pensi neppure all’ospedale, e ringrazi la Madonna d’esserne uscita così sana e forte. Troverà di certo un posto e migliore di quello di prima, grazie al cielo. Vada, vada dalla Beppa.

E la Barberina, mormorando un grazie e un saluto, chinò il capo, e soffocando un singhiozzo, uscì.

La sua figura mesta e giovanile sparì dal varco della porta, ove si disegnava un momento prima sul fondo chiaro della luce di fuori. La portinaja ricordò ancora per qualche momento la curva leggera del capo, del collo e di tutta quella persona che pareva piegarsi non per forza di una pressione esterna, ma per opera di un accasciamento interno, come se una molla si rompesse o piegasse dentro di lei.

Ma quella memoria durò poco.

Alla signora Rosa non parve vero che fosse andata via. Si rimise gli occhiali, accomodò per bene i guanciali sudici e mezzi vuoti del suo seggiolone, e nella sua triste abitazione, nella sua povertà oscura e malinconica ebbe finalmente il piacere di godersi una volta in vita sua il lusso di un egoismo da signori, quello di sentirsi seduta comodamente, al sicuro, in un’abitazione pressoché sua, protetta dal freddo e dalla fame, mentre quell’altra se ne andava via sola, senza asilo, senza sapere se avrebbe trovato al giungere della sera un ricovero per la notte. E intanto il gattone dormiva saporitamente, e la portinaja chiudeva di tempo in tempo le palpebre sotto gli occhiali, e sembrava che l’egoismo soddisfatto mormorasse dolcemente, quasi russasse di piacere, sotto al pelo della bestia e sotto ai logori cenci della donna. Se a noi fosse dato un sesto senso per udire il segreto agitarsi del pensiero, udremmo così fors’anche l’intiera città mormorare dolcemente, e il brontolìo di piacere dell’egoismo soddisfatto, escendo dalle sue alcove, dalle sue case, dalle sue vie, ci assorderebbe, tormentoso e insistente, avvolgendoci dovunque. Ma l’egoismo è muto per noi; i suoi dolori e le sue gioje sono silenziose, e passa nelle fibre umane senza rumore, pudico e ignobile.

sabato 7 febbraio 2009

Mi tenga qui fintanto che ho trovato padrone!

‒ Si cerchi un servizio, ‒ replicò la portinaja. ‒ È una brava ragazza, sana, giovane, onesta; che diamine! lo troverà sicuramente un padrone, e un buon padrone... meglio di questi che sono andati via.

E la portinaja, che sapeva l’arte del consolare e credeva di confortare la Barberina parlandole male dei suoi padroni di prima, stava per incominciare una litania di recriminazioni confortatrici. Ma la ragazza l’interruppe subito.

‒ Oh non ne parli male, ‒ disse, ‒ erano tanto buoni!

‒ Uhm, buoni... ‒ fece la vecchia scontenta. ‒ E l’hanno lasciata in questi panni.

‒ Per carità, mi aiuti lei, signora Rosa. Mi cerchi un servizio... lavorerò, farò ciò che posso; e intanto mi lasci star qui.

‒ Qui! ‒ esclamò la portinaja. ‒ Ma se non c’è posto neppure per me!

‒ Io ne prenderò così poco, signora Rosa, così poco, dormirò sopra una seggiola, non le darò maggior noia del gatto che le dorme costì fra i piedi. Mi tenga qui fintanto che ho trovato padrone! ‒ diceva con voce supplichevole la giovanetta. ‒ Lo troverò presto un padrone; mi accontento di fare i più duri lavori: mi vorranno bene, mi terranno di certo; potrò guadagnare qualcosa, e forse trovar modo di sapere dov’è la mia signora e raggiungerla.

‒ Raggiungerla! ‒ ripeté la portinaja, che guardava con maraviglia la Barberina che le parlava fra i singhiozzi.

La signora Rosa era molto noiata della piega che prendeva la conversazione, e pensava tra sé e sé al modo di districarsi da questo imbroglio. La Barberina la supplicava sempre, e parlava sempre di trovare il modo di raggiungere la sua signora; cosa che alla portinaja sembrava tanto ineffettuabile quanto assurda.

‒ La compiango, cara ragazzina! ‒ disse finalmente. ‒ Ma io sono una povera vecchia, che non può far altro che raccomandarla, raccomandarla tanto alla Madonna santissima perché la protegga, e raccomandarla anche a della brava gente, perché la prendano, o le trovino un servizio. Su via, coraggio; non faccia delle storie qui in portineria; se il padrone di casa passasse ora, sentirebbe il che mi tocca. Non si scherza con lui, sa? Mi manderebbe via senz’altro, se la tenessi qui anche soltanto fino a questa sera.

La povera Barberina tacque sgomenta. In quella casa, fra quelle mura conosciute le pareva di non essere ancora del tutto abbandonata; ma uscire da quella porta, andare fra gente che non conosceva, andare… dove? Il pensiero della Barberina si fermava sbalordito dinanzi a questo terribile dilemma. Aveva paura, e le tremavano le gambe.

martedì 3 febbraio 2009

Per carità, signora Rosa, mi dica che cosa è stato?

‒ Fallito! ‒ disse Barberina guardandola. ‒ Che cosa vuol dire?

‒ Vuol dire... vuol dire... Santa ignoranza! Non sa ancora che cosa vuol dire un negoziante che fallisce! ‒ replicò la signora Rosa, che non aveva l’abitudine di dare lì per lì pronte definizioni delle sue parole.

‒ Per carità, signora Rosa, mi dica che cosa è stato, dove sono andati, ‒ tornò a dire la Barberina con tono supplichevole, mentre le balenava una lontana speranza che non fossero andati tanto distante da X da non poterli raggiungere.

‒ Dove sono andati? ‒ esclamò la portinaja con un mezzo sorriso e una soffiatina stridula che significava per lei il concetto di una distanza ignota e incommensurabile. ‒ Dove sono andati? ‒ aggiunse servendosi di nuovo della parola. ‒ Lo sa la Madonna dove sono andati. Certamente dove sperano che non si possa ritrovarli.

‒ E non torneranno più? ‒ domandò ingenuamente la Barberina, che non poteva convincersi di quello che le diceva la portinaja.

‒ Vuole che il signor Rossi torni qui per farsi mangiar vivo da tutti quelli cui deve dei denari? ‒ replicò con ironia la portinaja. Vi fu un breve silenzio. ‒ Povera signora Rossi, era buona e non si meritava una disgrazia così grossa! Ma gli uomini, gli uomini sono tutti farabutti. Se ne guardi, ragazzina, se ne guardi bene.

La Barberina non rispondeva. Fissava il gatto della portinaja che le dormiva ai piedi, e lo guardava come fosse un essere mostruoso che le metteva spavento.

‒ Perché mi guarda il gatto a quel modo? ‒ disse dopo un momento la portinaja impensierita, e temendo che quella ragazza avesse il mal occhio e potesse portar disgrazia al suo favorito. Ma la Barberina non le dava retta.

‒ Al primo piano ora chi ci sta? ‒ domandò dopo un pezzetto, quasi pensasse ad alta voce.

‒ Chi ci sta? ‒ rispose con diffidenza la signora Rosa. ‒ Ci sta una famiglia tedesca; hanno seco le loro persone di servizio, tutte tedesche, e quando parlano non si capisce un’acca. Perché lo vuol sapere? ‒ domandò.

‒ Non lo so, ‒ rispose la Barberina quasi fosse mezza stupida. E ricadde nel silenzio di prima.

Avrebbe voluto poter andar di sopra, guardare in quelle camere, e convincersi che veramente i suoi padroni non c’erano più.

La portinaja la fissava sospettosa e compassionevole; ora diffidando della propria compassione, ora vergognandosi, per pietà, d’essere troppo sospettosa.

‒ Che cosa debbo fare adesso? ‒ disse finalmente la ragazza, raccogliendo il povero involto dei suoi panni e poggiandolo con una mossa di abbandono e disperazione sull’assicella che serviva da parapetto allo sportello della portinaja. ‒ Che cosa debbo fare, dove andare?

‒ Ma... ah! ‒ fece la donna. ‒ Che cosa vuole che le dica io?... È una disgrazia per lei; ma si faccia coraggio.

‒ Coraggio... sì, ne ho, ma non possiedo nulla, non conosco nessuno qui... Dove posso andare? ‒ disse ancora la povera Barberina.

domenica 1 febbraio 2009

La sua signora è partita.

La casa ove essi abitavano era situata in uno stretto crocicchio di viuzze anguste e buie, che formicolavano di gente e di carrozze. Quando Barberina la vide da lontano, e scorse le gelosie bigie del salotto e l’altre mezze aperte delle camere dei bambini, e poi, più giù, al mezzanino, quelle della sua cucina, provò una gran gioia, quasi rivedesse la casa paterna dopo essere stata lungo tempo in mezzo a gente straniera; affrettò il passo, e non sentì più né stanchezza né debolezza.

Entrò nella porta e passò subito nell’andito di una stretta e bassa portineria, nella quale, pressoché nascosta da una vetrata sudicia e affumicata, cuciva la vecchia portinaja, con un grosso gatto accoccolato fra le pieghe della sottana.

‒ Eh, eh! ‒ fece questa con una vocina stonata, vedendola passare così di furia. ‒ Eh, ragazzina, chi cerca?

‒ Sono la Barberina, signora Rosa, ‒ rispose subito quella, affacciandosi ad uno sportello nella vetrata e salutandola con un sorriso. ‒ Sono guarita e torno dalla mia signora.

‒ Dalla sua signora! ‒ esclamò la portinaja levandosi gli occhiali e fissandola con maraviglia.

‒ La sua signora? Ma quale?...

‒ Quale? ‒ replicò la Barberina. Ma la mia, la signora Rossi, ‒ e si sentì invadere da uno sgomento indefinibile, quasi le sovrastasse una sventura.

La portinaja la guardò un momento con aria di compassione e di curiosità ad un tempo.

‒ Come mai non ha saputo...? ‒ E si fermò di nuovo per guardarla.

‒ Che cosa? ‒ disse la Barberina tutta impaurita. ‒ Che cosa è stato? La mia signora è forse malata? Sta male?

E vedendo nel viso della portinaja un che di affermativo, come se dicesse di sì, fece un movimento per andar via e correr su per le scale; ma la signora Rosa la trattenne con un gesto imperioso.

‒ Dove va? Stia qui... Su non c’è più nessuno. La sua signora è partita.

‒ Partita! ‒ ripeté sgomenta la Barberina. ‒ E le parve che il tetto della vecchia casa calasse giù a poco a poco e la coprisse, la soffocasse, le togliesse l’aria e la luce. Si appoggiò ad un lato della vetrata, e dopo un momento sussurrò di nuovo: ‒ Partita! partita senza dirmi niente, senza avvisarmi...

‒ Eh bambina mia, ‒ replicò la portinaja, che stava attenta e aveva udite le sommesse parole della Barberina. ‒ Certe partenze non si possono strombettare tanto, prima di farle. La tua povera signora ha dovuto partire da un momento all’altro, senza cerimonie: suo marito è fallito.