martedì 24 febbraio 2009

L’Istituto di beneficenza è quasi sempre ancora in mano del prete

L’Istituto di beneficenza è quasi sempre ancora in mano del prete; ma il prete non è più, come lo era una volta, l’intermediario fra il bisognoso e la carità che lo soccorre; egli non è più senonché un isolatore in mezzo alle lotte della vita civile che si agitano intorno a lui; non ha più la pace dell’animo e il potere morale che in altri tempi lo mettevano in grado d’essere utile, che facevano derivare per esso un vantaggio dall’apparire buono e dal praticare la carità. Adesso il prete, buono o cattivo, deve pensare a sé; al pericolo che corre la sua religione; ha l’animo turbato, e incessantemente distratto dalle piccole cure del suo ministero. Il denaro che ha non lo può più spendere per il povero, soltanto perché è povero; un’altra e più alta miseria implora il suo aiuto; è la religione stessa, è la sua fede che egli deve soccorrere, che mendica e che soffre. Volete che quel prete soccorra l’incredulo, quando ai suoi occhi, per opera degli increduli, tutta la vita ideale delle generazioni avvenire è minacciata di morte morale? Che cosa volete che presso a questa sciagura gli appaia ancora degna di commiserazione; e volete che egli sia caritatevole senza chiedere se colui che lo invoca è credente, o no? se è un nemico della sua Chiesa o un amico di essa? Volete che non faccia parzialità, quando la sua Chiesa mendica dal mondo intero, e che il denaro che gli chiede un avversario bisognoso, lo può dare ad essa?
E quel prete ridotto ormai quasi necessariamente in codesta condizione morale è pur sempre a capo della beneficenza. Dispensatore parziale, anche se onesto e sincero, perché l’esercitare la carità imparzialmente sarà sempre per esso un voler mancare ai doveri del suo stato, egli isterilisce con la sua presenza lo spirito dell’Istituto che presiede. La sua fede, nella quale altre volte s’alimentava la carità, oramai la paralizza. E la società che gli ha tolto volonterosa l’antico prestigio, che gli ha tolto la volontà e la possibilità di essere utile e caritatevole, ha però lasciato nelle sue mani l’opera di beneficenza, il denaro del povero, sapendo segretamente che non se ne serve per esso, ma che invece l’adopera molte volte contro la società civile, la sola sulla quale d’ora in avanti il povero potrà contare. E lo deride, lo sprezza, o non se ne cura; eppure gli abbandona il più alto e delicato ufficio sociale: quello della carità.

E le signore Beppe e le signore Rose, che a poco a poco sono diventate anch’esse indifferenti alla religione, e che, quando non si sentono male e che hanno pranzato bene professano teorie da libere pensatrici, e non hanno più, come le loro nonne, le interminabili sedute col confessore e le chiaccherate sulle porte dei conventi e le equivoche amicizie con i fratacchioni del vicinato, ora quelle portinaie e bottegaie, non sanno a che santo raccomandarsi, quando capiti loro un caso come quello della Barberina. Non avendo più co’ preti la dimestichezza di una volta, né colle monache la intimità d’altri tempi, non avendo con le bacchettone del vicinato, scandalizzate dalla loro incredulità, le buone relazioni che avevano in passato, a chi chiederebbero un consiglio? E senza un consiglio che venga da quella parte, come fare?

In quei casi si pensa che con certe raccomandazioni, con la buona volontà dei signori, forse si potrebbe sapere e ottenere e concludere qualcosa. Ma quelle raccomandazioni come averle? Quei tali signori dove trovarli? E le difficoltà come le distanze sembrano, e talvolta anche sono, insuperabili.

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