venerdì 31 luglio 2009

La rispettò.


Nel vedere quella ragazza in terra, che s’aggrappava alla seggiola, rivelando in tutto l’atteggiamento della persona, nell’espressione del viso, in quella degli occhi sbarrati e fissi, uno spavento intraducibile, egli si arrestò perplesso.

Era un rispettabile cittadino di una fra le più popolose e simpatiche città di provincia italiane, che distava poche ore di ferrovia da X.

Quell’uomo non durò molto in quella perplessità; ebbe vergogna della propria incertezza e della propria timidità; guardò la camera, a lui ben nota, si ricordò del luogo ove era, sorrise alla ragazza e le parlò.

Barberina a quel sorriso, a quelle parole, balzò in piedi indignata, e, vedendo che egli faceva una mossa per avvicinarsele, fuggì; fuggì dietro un mobile, volle aprire la finestra e chiamar aiuto, corse all’uscio, ma udì delle voci e delle risa nell’andito, e non ardì aprirlo: pareva un animale debole, quando, dopo che è già stato preso al laccio o nella rete, gli si avvicina il cacciatore per ghermirlo.

Ma l’uomo, a quelle mosse disperate della fanciulla, si arrestò una seconda volta turbato e incerto.

Non poteva più essere finzione ciò che vedeva, né era possibile simulare uno spavento e un ribrezzo energico e sincero come quello.

Non la inseguì più, non le sorrise; la guardò per un momento con maraviglia e con interessamento.

Barberina se ne avvide: indovinò la compassione che essa destava in lui, e in mezzo alla febbrile agitazione di quell’ora, le balenò finalmente un raggio di speranza.

Si gettò ai piedi di quell’uomo, lo invocò, lo pregò. Gli chiese se non aveva anch’esso delle sorelline, delle figliuole; se non aveva delle persone cui voleva bene. Gli narrò tutti i suoi casi; parlò il linguaggio pudico e casto di una bambina mentre narrava i suoi spaventi di donna, i suoi ribrezzi, i suoi terrori.

Gli si raccomandò con tutto il fervore della disperazione; e disse tanto, che egli capì bene che tutto ciò che ella diceva non poteva essere che il vero.

La rispettò.

Rispose tranquillandola, alle sue preghiere; promise di parlare per lei alla padrona dello stabilimento, di raccomandargliela perché la lasciasse libera. Promise anche di tornare fra qualche tempo. Di più non poteva fare, perché non abitava a X, ed aveva preso un biglietto d’andata e ritorno, dovendo quella stessa sera tornare alla sua città nativa.

E andò via così com’era venuto, senza farle del male, senza farle del bene. Pagò, e disse qualche parola alla padrona della casa in favore della ragazza.

Andò via fiero di sé e della sua buona azione, inquieto soltanto per la paura di perdere la corsa e di non godere il suo biglietto d’andata e ritorno.

mercoledì 29 luglio 2009

Essa giunse le mani e pregò


Si udivano passi, fruscio di vesti, gente che rideva e chiacchierava passando per l’andito; talvolta il tintinnìo di una sciabola o il rumore di speroni risonavano nel corridoio, seguiti dalle risate triviali o dalle voci rauche delle donne; voci che la Barberina conosceva per averle udite a pranzo.

La ragazza tremava dalla paura ogniqualvolta quel chiasso e quei passi s’avvicinavano alla sua porta.

Essa giunse le mani e pregò.

Invocò la santa della cappella alla quale la mamma sua aveva promesso di accendere un lume ogni sabato affinché la proteggesse.

Le parve di rivedere la piccola e modesta cappelletta dinanzi alla quale soleva passare ogni sera e ogni mattina con le sue pecore; le parve di vedere il lumicino che la sua mamma aveva acceso dinanzi all’umile altare, nell’angoscia se lo figurava come l’avesse veramente davanti agli occhi, rilucendo nella notte pura e serena che avvolgeva la montagna.

In quel momento le tornavano alla memoria tutti i particolari del luogo che così rivedeva nell’esaltamento della preghiera; rammentava le pianticelle alpestri che avea vedute altre volte fra le pietre rose e sconnesse della vecchia cappella, ne ricordava il colore, la fragranza, sentiva i profumi del timo, salire come un incenso verso l’immagine della santa, e mescolarsi al dolce chiarore del lumicino, quasi le offerte inscienti della natura si mescolassero al voto doloroso degli esseri viventi.

E la ragazza pregava con fervore, e l’animo suo agitato si figurava l’alto silenzio dei suoi monti avvolti nella notte, mentre l’orecchio sbigottito ascoltava ora il chiassoso andirivieni, ora la gioia triviale che scoppiava ad ogni momento, bestiale e sfacciata, dalle alcove e dagli anditi di quella casa.

I rumori di quella gioia salivano come una marea intorno a lei, crescevano col suo sbigottimento e colla sua paura.

La paura divenne alfine più forte del fervore.

Non pregò più, ascoltò...

Una mano si posò sulla gruccia dell’uscio.

Barberina gettò un urlo soffocato, e un uomo entrò nella camera.

La giovanetta, senza rialzarsi, più che inginocchiata, accasciata dietro la seggiola, lo guardava con degli occhi pieni di spavento: lo guardava come non avesse mai veduta nessuna creatura umana, nessun uomo prima di lui.

Era un signore che passava la quarantina.

lunedì 6 luglio 2009

Intanto la casa si animava.

Conduci questa ragazza nella sua camera, ‒ disse subito la padrona, ammiccando coll’occhio. ‒ Sta tranquilla, bambina. Domani riparleremo e si vedrà d’accomodare le cose. Sii obbediente e quieta, te ne troverai contenta, ‒ e prima che la Barberina potesse rispondere, la signora uscì dalla camera e la lasciò sola con la fantesca.

Quella donna, che era il braccio destro della padrona, sapeva come stavano le cose, e vedendo che la ragazza non si moveva, le disse:

Se davvero non vi piace di veder gente, vi conviene a tornar subito in camera vostra. ‒ La Barberina a quelle parole le si avvicinò impaurita.

Andiamo, ‒ rispose; e le si strinse al braccio e le si raccomandò con tanto fervore, che la donna n’ebbe quasi compassione, e dopo averla riaccompagnata alla medesima camera di prima, la lasciò senza aprir bocca, temendo che la ragazza le si raccomandasse ancora e finisse con l’intenerirla troppo.

Barberina era di nuovo sola, nella camera rossa.

La fantesca v’aveva acceso un lume, e la luce di esso contrastava con un fioco bagliore crepuscolare, che passando traverso le gelosie sempre chiuse veniva di fuori.

Era una luce calda e velata, che le ricordava i tramonti sereni del suo paese.

Quei bei colori, entrando lì dentro, si corrompevano e morivano fra l’ombre rossiccie delle tende, oppure si scioglievano nel chiarore giallognolo e inquieto del lume. Un alito d’aria scuoteva nell’afa di quella camera la fiamma della lucernetta a petrolio. L’ombra dei mobili e delle tende si movevano per quel tremolìo della luce e animavano sinistramente la stanza.

Pareva che l’ombre di tutti coloro che l’avevano abitata prima della povera Barberina, si movessero festanti e luride fra le cortine del letto e i riflessi dello specchio.

C’era folla lì dentro.

C’era la gente d’ieri, c’era nell’aria un’impudica impazienza della gente d’oggi.

E quella folla che non si vedeva, e che pur era presente dappertutto, il mistero di quella camera le pareti della quale sembravano moralmente aperte a ognuno, Barberina l’indovinava con un istinto di ribrezzo e di paura.

Essa s’inginocchiò per terra accanto ad una seggiola e pianse.

Intanto la casa si animava.