mercoledì 30 settembre 2009
È un lusso, non una necessità
E Luca?
martedì 29 settembre 2009
Barberina era salva
lunedì 28 settembre 2009
La fanciulla aspettava trepidante quel momento
domenica 27 settembre 2009
Pur troppo non c’era altro scampo
martedì 22 settembre 2009
Le si affacciava come visione spaventosa
domenica 20 settembre 2009
Quella ragazza era iscritta
E di queste storie se ne udivano ogni giorno in quell’ufficio, e gl’impiegati, vedendo come quei preti e quelle monache s’erano preso a cuore l’affare della Barberina, trovavano che essi avevano pure un gran buon tempo. Perché quei signori, come molta gente ignorante e volgare tra noi, erano liberi pensatori. Liberi pensatori in quel triste modo di esserlo, che esenta chi ne professa le opinioni, non soltanto da ogni credenza religiosa, ma anche da tutti quei sentimenti di carità e di dovere che essendo finora scaturiti specialmente dal sentimento religioso, vanno ora confusi dal volgo con esso, e con esso dimenticati o negletti.
E per questo le raccomandazioni dei preti per salvare la povera Barberina, e le premure fatte da essi, anziché giovarle, forse le nocquero; e così sciocco è sempre il pregiudizio, sia per la religione o contro di essa, che il vedere un prete o una monaca interessarsi ai casi di una disgraziata, faceva nascere il desiderio di mandare a vuoto l’opera loro, perché in qualche cosa e in qualche modo non riuscissero; quasicché al disopra di una lotta di credenze o di idee, e sia pure di logica contro l’assurdo, non debba sempre prevalere alto e gagliardo quel sentimento ancor bambino per molti, che è la carità civile.
E i preti e le monache non riescirono. Fu un trionfo di risatine stupide d’impiegatucci triviali e ignoranti, e di donne da postribolo. E così, mentre nessuno in questa cosa, fuorché i preti e le monache, s’interessava a quella disgraziata, mentre nessuna legge tutelava l’interesse dell’innocenza e della libertà individuale, trionfavano i difensori del potere civile contro gli sforzi inutili del partito avverso.
Barberina era dunque condannata a restare ciò che l’avevano fatta a sua insaputa; condannata irrevocabilmente a tornare in quella casa, a subire la volontà della megera padrona di essa.
Avevano un bel dire, il molto reverendo sacerdote che la raccomandava e le signore monache che non si vergognavano di proteggere le donne che appartenevano alla Questura; quella ragazza era iscritta, era caduta ormai nell’abisso, e ci doveva stare. Che cos’era di più di tante altre? Doveva forse godere privilegi perché la raccomandavano i frati?
Non c’era più scampo.
La giovanetta migliorava, e alle sue domande insistenti non ci fu verso di non rispondere il vero.
Quando glielo dissero, credettero fosse per impazzire.
Fu una scena straziante di disperazione.
A momenti non ci voleva credere assolutamente; le pareva impossibile che senza meritarselo in alcun modo, dopo tanti sforzi per fuggire quella sorte abbietta, ce la spingessero suo malgrado con la violenza, con la legge.
giovedì 17 settembre 2009
Le economie della prostituta!
L’economia poi, che è il primo passo che fanno queste infelici per arrivare alla liberazione, e che il nostro regolamento di pubblica sicurezza ricompensa nei suoi primordi con dei libretti della cassa di risparmio, questa ragazza non l’aveva saputa fare; quell’economia, che non fa chi non supera le altre nella dissolutezza e nell’abiezione più compiuta, e che il nostro regolamento favorisce e appoggia.
Dov’erano nel caso presente le economie della prostituta, e con esse le prove del suo ravvedimento?
Le economie della prostituta!
Ci hai pensato mai, lettore? Te la figuri la fanciulla, forse appena ventenne, calcolando i suoi tristi guadagni? te la figuri fredda e sobria in tutto, e poi per lucro dandosi al lusso sfrenato nel vizio? Trasformando l’abiezione in denaro? E accanto a questa fanciulla ingegnosa e furba non vedi il rappresentante della legge che le offre il premio delle sue fatiche, delle sue economie, che la rimunera con orgoglio e sapienza civile?
Non ci hai pensato mai?
Eppure ogni giorno esse ci passano d’accanto, ora liete e belle, ora sparute e meste. E presso alle economiche e benemerite non si vedono le altre travolte dal turbine del debito che cresce per ogni pudore, per ogni ritrosia, o per ogni sete di oblìo cercato nel chiasso dell’orgia. Non si vedono quelle che hanno un figlio, una madre, un vincolo qualunque spezzato bensì, col resto del mondo, ma che in esse è pur sempre vivo e duole come il braccio di un amputato.
L’economia loro che cos’è? Il vero titolo a un compenso, la prova del ravvedimento non è invece talvolta per esse il debito? Quel debito che alla grande catena di schiavitù dell’iscrizione che le vende alla società, aggiunge quell’altra più stretta e più dura che le vende ad un padrone solo, cupido e avaro.
Quel debito la Barberina l’aveva, e a quel debito non s’aggiungeva il fatto dell’essersi presentata spontaneamente? Perché credere di più a quello che diceva una bambina sedicenne che ad una mezzana esperta e provetta, e alla padrona d’una casa accreditata come quella cui aveva appartenuto la Barberina? E non era forse entrata nell’ospedale affetta, oltre la malattia cerebrale, di un male che provava la sua colpa? Che cos’era il nome di una ragazza di più fra tante e tante iscritte nel registro della Questura? Che cosa importava se là c’era andata più o meno volentieri, ora che la cosa era fatta e che non si poteva rimediare? Una ragazza che usciva da un luogo come quello, Dio buono, che cosa voleva fare fra le altre? Alla sezione di polizia ne avrebbero sorriso di certo, se la gran farragine di donne e il gran da fare per esse, non avesse impedito agli impiegati di occuparsi lungamente di un caso in particolare.
mercoledì 16 settembre 2009
Era un buon uomo; pio sino alla superstizione
Per non turbarla il prete rispose che non lo sapeva. L’esortò pel momento a non curarsi di quel cartello, a star tranquilla e a sperare in ciò che egli avrebbe cercato di fare per essa. Le disse le più efficaci parole di conforto che potesse trovare per il caso suo, e la lasciò promettendole di occuparsi subito di quanto riguardava la sua liberazione.
Era un buon uomo; pio sino alla superstizione, ardente nella sua fede. Accanto al sentimento religioso si era sviluppato in lui profondo e sincero il sentimento della carità. Neppur vivendo in mezzo ai malati e ai morenti, al dolore fisico e al dolore morale, la sua carità non s’era mai esaurita, non era venuta mai meno.
Il caso della povera ragazza, quel delitto mostruoso narrato da quelle labbra ancor quasi infantili col pudore e la franchezza dell’innocenza, l’avevano profondamente commosso. Andò subito dalla superiora delle monache che facevano il servizio dell’ospedale, s’affiatò col padre spirituale di un ricovero di beneficenza dal quale sperava aiuto; fece insomma quanto più poteva per soccorrerla e liberarla.
E gli altri lo aiutarono; lo aiutarono con zelo, con amore.
Ma i loro tentativi presso la Questura, presso la padrona del luogo d’onde la poveretta era uscita, non valsero a nulla. Quella donnaccia diceva che la giovinetta si era presentata volontariamente, accompagnata da una mezzana ben nota, la quale non trattava senonché donne di perduta fama; diceva che, accolta nella casa di tolleranza, aveva accettato vesti e biancherie che ella s’era perfino portate seco all’ospedale; diceva che vi aveva vissuto lautamente e v’avea contratto un debito così grosso che, per quanto inverosimile fosse la somma, doveva pur esser pagato dalla ragazza qualora non ci volesse più stare; s’intende che la mezzana, dal canto suo, negava recisamente che la fanciulla, entrando in quella casa, non sapesse dove andava e che non avesse manifestato spontaneamente il desiderio d’entrarvi.
Quanto alla Questura, ormai che la fanciulla era iscritta nei suoi registri, non era facile cosa il farne cancellare il nome. E con l’elastica parola di tutela del pubblico interesse, che copre tanta indolenza e tanti abusi in questo ramo di servizio, per paura che qualche mascalzone vizioso o qualche farabutto brutale non abbia a correre il rischio di una disgrazia, incerta e lieve sempre, se la paragoniamo al delitto di tenere a forza una innocente nella galera della prostituzione, per questo la Questura, senza fare indagini, accontentandosi soltanto delle spiegazioni date, trovò senza fondamento le domande che da più parti intorno a questa, le furono rivolte.
D’altra parte la ragazza per la sua condotta in quella casa non aveva dato garanzia alcuna di ordine e di buona condotta. Le sue bizzarre ritrosie, la sua disubbidienza alla padrona, il debito contratto con essa, lo provavano.
martedì 15 settembre 2009
Il prete non rispondeva
Ma non era così facile il confortare quella poveretta. Essa insisteva con un’ostinazione disperata, perché le fosse levato il cartello. Quel nome non lo voleva, non lo tollerava neppure con la promessa che avrebbero chiesto il permesso di levarlo più tardi, non poteva adattarsi neppure per un istante all’idea d’essere creduta una prostituta.
La suora con dolcezza e severità l’esortò a rassegnarsi; le promise di pensar subito al caso suo, di parlarne a chi poteva giovarle, e vedendo che la ragazza s’era fatta più tranquilla, la lasciò sola per badare agli altri malati, e mandarle il prete dell’infermeria affinché ella si consigliasse con lui.
Al prete la giovanetta raccontò quasi tutta la sua storia; non soltanto gli si confessò, ma gli si raccomandò con tutto l’animo.
Il buon sacerdote rimase profondamente colpito da quel racconto, e le promise di fare per essa quanto più poteva, esortandola per il momento a rassegnarsi.
‒ Oh mi rassegno di buon cuore a tutto ‒ esclamò la poverina. ‒ Non mi lamenterò più, sopporterò dolori e febbri e mali d’ogni sorta, ma per carità mi levi quello scritto, me lo levi se non vuole che impazzi.
‒ Non posso, ‒ rispose mestamente il prete.
‒ Non può? ‒ domandò sgomenta la giovanetta. ‒ Neppur ora che le ho detto tutta la mia storia, tutta la verità, tutto quello che ho patito?
Il prete crollò il capo.
‒ Povera ragazza, per ora rassegnatevi. Quel cartello noi non possiamo levarlo. Il regolamento dell’ospedale lo proibisce, e fintanto che non sia chiarita la vostra innocenza...
‒ Debbo star qui con quella vergogna lì su... a capo del letto... debbo figurare come se fossi ancora in quella casa... ‒ poi un pensiero orribile le si affacciò alla mente.
‒ Ma quella signora, quella donnaccia crudele... se volesse... dica, o per carità dica... se volesse, mi potrebbe riavere?
Il prete non rispose. Quell’infelice gli faceva troppa pietà, perché le potesse dire il vero.
‒ Oh risponda, la scongiuro, risponda, ‒ tornava a chiedere sbigottita la fanciulla: ‒ quella donna diceva, che le dovevo tanto denaro, che non me ne sono mai guadagnato, che le devo una grossa somma, una somma enorme...
Il prete non rispondeva.
La fanciulla piena di terrore gli prese le mani, e, supplicandolo, domandò di nuovo che rispondesse.
‒ Dica che non è vero, che non è possibile; lo dica; oh lo dica subito! ‒ implorava la giovanetta.
lunedì 14 settembre 2009
Levate, levate quel cartello
Finalmente capì. Allora cacciò un grido di spavento e di sdegno, e fece uno sforzo per uscire dal letto, ma non poté, e ricadde sui guanciali.
Un’infermiera accorse subito presso al suo letto. La malata, sopraffatta da quello che aveva provato, era quasi svenuta. L’infermiera s’affaticava invano per farla rinvenire, quando la suora, che aveva udito anch’essa quell’urlo, la raggiunse. Domandò che cosa era stato, ma né le malate più vicine, né l’infermiera stessa sapevano che cosa fosse seguito alla ragazza.
La suora rimandò l’infermiera e rimase sola ad assistere la malata. A poco a poco le riuscì di farla rinvenire; ma appena la giovanetta ebbe aperti gli occhi, balzò di nuovo a sedere sul letto, alzò le braccia, le stese verso il cartello, gridando:
‒ Non è vero, non lo sono! Non è possibile, sono una ragazza onesta. Levate, levate quel cartello, levatelo subito!
La suora dubitava che alla poveretta fosse tornato di nuovo il delirio. Cercò di farla star quieta, la pregò di star zitta, di non disturbare le altre malate con le sue grida, ma nulla valse. La povera fanciulla non era in grado di domare il suo sdegno, il suo ribrezzo per la parola che stava scritta sopra al suo letto. Tutto l’animo suo si ribellava, tutta la sua fiera innocenza si risvegliava per imprecare indignata contro chi le aveva dato quel nome.
Aver tanto sofferto per poi svegliarsi qui, sotto a quella parola!
‒ Una prostituta io? Io con quel nome, io? Ma non è vero, non è possibile, oh dica lei che non è vero, che non lo merito, lo dica! ‒ E si rivolgeva alla suora che l’ascoltava compresa di pietà e di stupore senza sapere che cosa rispondere.
‒ Lei non sa che mi hanno presa a forza, non sa, ‒ e alla poverina non bastava neppur l’animo di ricordare l’orrore di quella scena; e lo spavento le si dipingeva negli occhi sbarrati, e la vergogna sulle guancie, che si facevano ora rosse rosse, ora pallide come se fosse per morire. Invano la suora cercava di tranquillarla.
‒ Non lo potrò mai dire a nessuno tutto quello che è stato e quanto ho sofferto. Dio buono, ero dunque abbandonata anche da te in quell’ora? e quando mettevano qui al mio letto quello scritto infame non c’era chi parlasse per me? ‒ E la giovanetta giungeva le mani e pregava; pregava la suora, pregava Iddio e faceva sforzi inutili per rialzarsi sul letto e strappare quel cartello.
La monaca era profondamente commossa. Aveva ormai ben capito che quella poveretta non vaneggiava più, e che un crudele misfatto era stato commesso sopra un’innocente.
La confortò alla meglio, la pregò di star quieta, d’aversi cura, disse che avrebbe parlato di lei alla superiora e che forse quando stava meglio avrebbero potuto soccorrerla.
giovedì 10 settembre 2009
Finalmente il delirio cessò
Nella quiete di una sala d’ammalati meno frequentata delle altre, la giovanetta vaneggiava sempre, gridando e implorando.
La suora dell’infermeria raccoglieva con maraviglia alcune parole della malata, e il prete dell’ospedale si fermava talvolta perplesso dinanzi a quel letto.
Finalmente il delirio cessò; e un giorno, mentre un pallido raggio di sole autunnale illuminava mestamente la bianca fila dei letti dell’infermeria, la fanciulla rinvenne.
Guardò intorno a sé con maraviglia, fissò con stupore l’infermiera che passava in quel momento, e seguì con gli occhi la lunga fila dei letti e i visi dei malati.
Sentiva d’essere sotto al peso d’una grande disgrazia, di un terrore, e di un male che non ricordava ancor bene qual fosse.
A poco a poco si rammentò d’ogni cosa.
Balzò impaurita a sedere, e guardò ancora la sala, i malati e le infermiere che passavano.
Trasse un profondo sospiro. No, non era più in quel luogo orribile, n’era uscita; era nell’ospedale.
Si mise a sedere sul letto e guardò ancora intorno a sé. Come mai era venuta lì? quando?
Dopo... ma a quella notte terribile non poteva pensare, le sembrava un fatto avvenuto tanti anni addietro, tanto tanto tempo fa. Si voltò e guardò verso il muro.
Barberina aveva imparato un poco a leggere dai bambini della sua padrona.
Vide un cartello appeso sopra al suo letto, era scritto con caratteri grandi e chiari; ma la sua vista era debole e fosca in quel momento, e non poté leggere subito quello che vi stava scritto.
Appoggiò i gomiti ai guanciali, rialzò il capo e guardò più da vicino il cartello.
Quante volte nella medesima positura, distesa sui prati, aveva guardato insù alla vetta dei monti per vedere se Luca scendeva colle sue pecore!
In questo momento, rifacendo la stessa mossa, se ne ricordò. Chiuse gli occhi stanchi, e pensò a lui; ma presto li riaprì di nuovo sgomentata di quello che la memoria di lui evocava nel suo pensiero, e si mise a piangere amaramente.
Pianse per un pezzo; poi vinta dalla stanchezza si assopì leggermente; ma era un sonno così leggero che ogni rumore dell’infermeria la svegliava.
Era inquieta. Alla mente debole e confusa s’affacciavano mille paure. A momenti le pareva che tutto ciò che era avvenuto non fosse stato altro che sogno di febbre. Lo sperava, ma aveva paura. Era una paura indefinibile.
A un tratto si ricordò del cartello che aveva visto poco prima appeso al muro. Che cosa poteva essere? Si rialzò di nuovo e si provò a leggere. Ma ci vedeva poco e ci volle un pezzo, prima che giungesse a capire ciò che v’era scritto.
lunedì 7 settembre 2009
Era una prostituta
Si udirono delle grida soffocate, delle risa oscene.
Da quella camera seguitavano a uscire singhiozzi e lamenti. Spaventate, nelle alcove più vicine, delle donne seminude si sollevavano dai guanciali, e ascoltavano paurose.
La padrona udì quelle voci e non si mosse.
Le udirono le serventi, che con indifferenza servile corsero a chiudere gli usci perché la gioia notturna di quella casa non fosse funestata da quei tristi lamenti.
Ma questi lamenti duravano sempre.
Salì alta nel cielo la luna, e sparì lenta e luminosa dietro le vette lontane dei monti; s’imbiancò l’orizzonte per le prime luci dell’alba e quei lamenti ancora duravano.
Ad uno ad uno se n’andavano vergognosi e abbattuti i visitatori di quella casa; un sonno pesante, un’afa insopportabile, un nauseabondo odore di liquori, di vini e di profumi avvolgeva in ogni sala, in ogni camera le persone che ancora vi rimanevano. Ma in quell’afa, in quei sopori dell’orgia, passavano di tempo in tempo, come un guizzo di cosa viva, grida strazianti.
Durarono finché una portantina d’ospedale non venne verso il meriggio a raccogliere la povera delirante, che nei sogni spaventosi della febbre ricordava sempre la terribile realtà.
E dal letto del postribolo tornò al letto d’ospedale, straziata, contaminata; e al disopra di quel letto ove giaceva il corpo malato della bambina, un rappresentante della società civile e dell’ordine legale, appese un cartello, sul quale era scritta una parola infame.
Non lo vide e non lo seppe la povera giovanetta in preda a tutti i terrori del suo cervello malato, che le raffigurava le orribili ore passate, prima che lo sbigottimento, il dolore, il delitto compiuto sopra di lei, non l’avessero fatta quasi impazzire.
A capo del letto ove l’innocenza demente lottava e forse sperava ancora, stava inesorabile quel cartello. E le donne per bene, passando dinanzi ad esso, dopo aver guardato in su e dopo aver letto quella parola, volgevano la testa dall’altro lato, ora con disgusto, ora con malizia, talvolta con ira.
Era una prostituta.
Esse invece erano libere, mentre quella disgraziata era una schiava; e la sua giovinezza non la poteva scusare, ma l’accusava anzi maggiormente; il suo male non era per esse se non altro che una prova degli eccessi commessi nella colpa stessa, e per questa ragione nessuna, passando, si fermava presso al suo letto.
Donne galanti, mogli adultere, giovanette viziose, tutte passavano, guardandola con disprezzo.
Era una prostituta.
Non aveva più nulla in comune con le altre, non era più donna come loro, ma era soltanto una femmina; e la sua esistenza gravitava oramai inesorabilmente nella cerchia ributtante della propria femminilità.
Abbiezione irrevocabile, che agli occhi di tutti non appare come una disgrazia ancor maggiore per la sua irrevocabilità, ma anzi sembra più abbietta perché senza rimedio, e trae dalla stessa sua disperata condizione un obbrobrio sempre crescente, come ai tempi della schiavitù il non essere libero imponeva un marchio d’inferiorità crudele e assurdo.
È così che certi grandi delitti contro la natura nostra, non potendo ricadere sopra uno solo, perché compiuti da molti collettivamente, non soltanto creano delle vittime, ma riversano sopra di esse anche l’onta del delitto stesso, la quale dura e vive nei colpiti come marchio d’infamia.
Portarono quest’onta gli schiavi; la portano tuttora le prostitute, e la condividono tutti quei miserabili che soffrendo d’un’ingiustizia sociale, e non potendo punirla, la subiscono.
Quel cartellino unto e sdrucito pesava su quel letto, su quella bambina, sull’aria stessa che l’avvolgeva, come fosse una campana di cristallo, che separandola da tutto il resto del mondo per sempre, pure glielo lasciava vedere di fuori lieto e sprezzante, pieno di affetti e di virtù, di aspirazioni severe ed elevate.
domenica 6 settembre 2009
I più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità
Lo attendeva con la fede di una bambina. Aveva delle ore di febbre, nelle quali l’aspettava da un momento all’altro, quasi fosse cosa viva e dovesse entrare dalle porte o dalle finestre.
Che cosa poteva essere? Che uno di quegli uragani spaventosi e violenti, com’ella n’aveva visti tanti nei suoi monti, si scatenasse improvvisamente su quella casa, la scuotesse, l’atterrasse e la distruggesse per sempre? Sperava forse che la luce e il sole, puri e fragranti come l’aria delle cime alpestri, irrompessero a un tratto qual turbine rigeneratore in quelle camere, in quelle alcove, in quegli anditi; che v’illuminassero, v’abbagliassero tutte le vergogne che vi stavano nascoste e stipate; che nella fragranza dei muschi e delle erbe montane affogassero i profumi dell’orgia, e che tutta quell’afa di vizio e di corruzione morisse nella corrente pura e luminosa che l’aveva invasa?
Povera bambina, che popolava colle superstizioni dell’innocenza le paurose veglie in una camera di postribolo!
Ma intanto la padrona di quella casa perdeva la pazienza; temeva che la ragazza ammalasse, che qualche caso inatteso venisse a portarle aiuto e dare a lei gravi imbarazzi.
Indignata da quella fiera resistenza, sempre più irritata dalle supplicazioni e dalle lagrime della povera fanciulla, che non sapeva più trovare parole e preghiere bastanti per invocarla affinché la liberasse, impaziente di togliersi a tali supplicazioni angosciose, quella megera ideò un triste e feroce disegno.
Una notte quel disegno si effettuò.
Barberina guardava paurosa il cielo traverso le chiuse gelosie. Ascoltava tremante i passi e le voci della gente che passava nell’andito, mentre guardava le nuvole che correvano rapidamente nello spazio e le ombre nere di una notte burrascosa.
I suoi occhi fissavano il cielo, seguivano quelle nuvole, si raccomandavano a tutte le cose che erano fuori di lì, e intanto essa ascoltava trepidante.
In quella medesima ora la padrona della casa narrava, ridendo, a tre giovinastri avvinazzati, rozzi e brutali, le paure e le resistenze della povera Barberina.
Mostrò loro quella impresa come cosa degna della loro ardita giovinezza, fasto meritevole d’essere annoverato fra le memorie di quella casa; né a loro bisognava l’eccitamento delle sue parole, ed essa lo sapeva. Avea scelto accortamente fra i più triviali e tristi, fra i più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità.
Eccitati dal vino, dalla festa che si promettevano, dalle parole della padrona, quei tre salirono le scale che mettevano al secondo piano. Sghignazzando per i laidi scherzi che proferivano, percorsero chiassosi tutto l’andito e si fermarono dinanzi alla porta di Barberina.
L’aprirono ed entrarono.
giovedì 3 settembre 2009
La poveretta non sperava più che in un miracolo
E se il concetto della divinità nasce in noi dal contrasto di una grande e desiderata virtù ideale che si contrapponga ai vizi e alle trivialità del mondo, e se, trovato quell’alto concetto che contrasta compiutamente col puerile cinismo umano, l’adoriamo e lo prendiamo ad esempio, così poteva ben anche la povera Barberina ricordare con fervore quella realtà che ormai nel suo pensiero era tanto lontana che assumeva una forma ideale, e invocarla come cosa potente ed efficace. E il contrasto qui non mancava. E i ricordi delle grandiose scene di natura, e il sentimento infantile che ci si era educato e compenetrato tutto, contrastavano con la ributtante realtà presente, quanto contrasta l’immagine della vita umana con quella altissima e ideale dell’aspirazione filosofica o religiosa.
Barberina si aggrappava a quei ricordi del passato con un ardore disperato. Ci trovava la forza di resistere, l’energia della lotta. Essa non rammentava savie parole di consiglio, lezioni di morale severe e ponderate. No, non una parola scritta, non una parola detta le tornava alla mente in quest’ora di tribolazione, non ne sapeva, e forse, se ne avesse sapute, non le avrebbero bastato; no, ricordava un altro insegnamento più alto e più intenso, un insegnamento che aveva ricevuto in ogni istante della sua esistenza; ricordava una maestra severa e forte, che era stata sempre con lei e in lei, e quella maestra era la natura. Ricordava una famiglia, che incominciando dalla madre sua, si estendeva numerosa, feconda, infinita, intorno a lei; fin dove s’estendeva la vita del mondo da lei conosciuto, e quel ricordo la sorreggeva. La dolce memoria di essa la confortava e ammoniva; entrava tacita tacita, dalle gelosie socchiuse di quella camera infame, e si stendeva pura e incorruttibile col raggio di sole ai piedi di quel letto di postribolo, e scintillava nel cristallo dello specchio ove la sozza gioia di quella stanza s’era specchiata tante volte. Alta e pura la luce del sole brillava su quella casa, turpe invenzione di civiltà.
E quando Barberina vedeva quel po’ di sole, o spiava le stelle traverso le sbarre di legno delle gelosie, le pareva di vedere un viso d’amico e la confortava il pensare che la grande bellezza di natura era sempre forte e potente fuori di lì. Si figurava forse che la profonda vergogna che provava lei di tanta sciagura, l’avrebbe provata qualche altro; che la natura così bella avrebbe ispirato a tutti, a un tratto, come per miracolo, l’orrore, il ribrezzo che sentiva lei; che come lei avrebbero sentito, anche gli altri che erano in quella casa e fuori di essa, un che di terso, di puro, di incontaminato in se stessi, che si ribellava improvvisamente con selvaggia energia ad ogni turpitudine.
La poveretta non sperava più che in un miracolo.
martedì 1 settembre 2009
Ore di veglie angosciose
Passarono dei giorni, e peggio ancora che i giorni passarono le notti.
Ore di veglie angosciose, di supplicazioni inutili, nelle quali la febbre che tornava a scuotere le membra della povera convalescente, s’univa alla febbre morale di paure e terrori indescrivibili.
Era una lotta disperata.
Barberina si trascinava per terra ai piedi dell’orribile megera che era la padrona di quel luogo, l’implorava, la supplicava. Pianse davanti a lei le più sante lagrime della sua innocenza, pregò col fervore della disperazione.
Davanti a quella resistenza angosciosa, la triste donna non osava ritentare una prova simile a quella della prima sera. Temeva che la compassione potesse indurre qualche persona a fare più di quanto avesse fatto quel signore provinciale, le cui severe parole di ammonizione le tornavano alla mente, non per convincerla del delitto che commetteva, ma per consigliarla d’essere prudente. Essa sperava che la paura, anzi il terrore domerebbero a poco a poco la fiera resistenza della giovanetta; sperava che l’esempio delle altre, l’atmosfera corrotta di quel luogo, corromperebbero presto anche lei, e che vedendo ogni resistenza inutile, ogni altra speranza nell’esistenza chiusa e finita per sempre, si piegherebbe finalmente alla sua volontà e accetterebbe volentieri la sorte inevitabile che le era stata imposta.
Ma quella donnaccia s’ingannava.
Il corpo della povera Barberina si estenuava fra le paure e i terrori di quella vita travagliata, di quei giorni e di quelle notti passati spiando angosciosamente ogni passo, ogni suono di voce che s’avvicinava alla sua camera, raccogliendo con orrore le parole oscene, le risate laide delle altre donne, sentendo raccontare con un disgusto, che cresceva ogni giorno, i turpi aneddoti del luogo, rifuggendo con orrore dal pensiero dalle bassezze che per vile interesse commettevano quelle disgraziate, narrandole poi con l’orgoglio del più triste cinismo. Essa resisteva sempre.
Era un disgusto intraducibile, un ribellarsi continuo, incessante, una nausea morale che sollevava ogni sua fibra e ogni suo pensiero.
Che ore passava nella penombra di quella camera rossa, senza ardire di prender sonno, senza avere il coraggio di riposare, sempre desta, sempre attenta!
Quante preghiere innalzava alla santa della cappella, dinanzi alla quale le sembrava di veder costantemente ardere il lumicino acceso da sua madre; che disperate invocazioni, alla pace pura e solenne dei suoi monti, all’amore di Luca, quasi quella pace e quell’amore fossero divinità e la potessero ascoltare ed esaudire.
giovedì 27 agosto 2009
Barberina era rimasta sola di nuovo
Barberina era rimasta sola di nuovo.
Dopo la partenza di quel signore le era sorta una speranza di salvezza.
Aspettava che la venissero a prendere, che le dicessero che era libera; sperava che forse tornasse quel signore stesso a liberarla e a indicarle dove poteva ricoverarsi in quella notte.
Ma passavano le ore e non veniva nessuno; e a misura che le ore della notte battevano monotone e regolari dal campanile di una chiesa vicina, le speranze della povera Barberina morivano ad una ad una, sepolte sotto al rintocco di quella campana: e da ogni speranza che moriva, nasceva una nuova paura.
Convalescente appena da una grave malattia, scossa dalle emozioni di quella lunga e terribile giornata, la povera ragazza non ne poteva più. Si sentiva male, e una dolorosa agitazione febbrile la travagliava.
A momenti si assopiva. Vegliava e sognava ad un tempo. Ora pregava, ora si lasciava avvolgere da un grave torpore di febbre e vi cadeva con senso di riposo, sperando da esso un momento di tregua alle sue paure, poi di nuovo balzava sbigottita da quel sonno tormentoso e prestava l’orecchio impaurito ad ogni rumore, ad ogni suono di voce, ad ogni fruscìo di veste.
Finalmente la fioca luce dell’alba, pura e bianca, s’insinuò lentamente fra le gelosie, e fece dileguare a poco a poco le ombre paurose della notte. La luce giallognola del lume moriva dolcemente nel chiarore biancastro del giorno e i riflessi rossicci dei mobili si scioglievano anch’essi in quella luce. L’aspetto fantastico della notte in quella camera dileguava come spettro che fugge all’apparire dell’alba.
Era lo spettro triste delle orgie e del vizio che cova nascosto e stanco durante le giornate attive e laboriose delle grandi città.
Spettro che si cela sonnolento framezzo alla folla affaccendata del giorno, che riposa, aspettando la notte, sulle porte dei teatri, sotto ai loggiati dei mercati, sui gradini delle arene, nei chiostri e nelle chiese; spettro che dorme anche in noi stessi nascosto e debole. Perché non è soltanto sopra i resti organici di cose che non sono più, che sorgono le cose vive d’oggi e l’operosa attività d’ogni nuovo giorno, ma è anche su quelle che morte moralmente hanno pur sempre ancor viva la vita dei sensi. E non è soltanto infinitamente piccolo il numero dei vivi d’adesso in confronto di tutte le generazioni che furono, ma lo è anche in confronto dei molti che per alimentare quella vita presente hanno dovuto morire la vita morale.
E accanto ai tumuli veri, la società n’ha creati altri artificiali. Tombe di creature vive; talune di bambine e di donne, morte per sempre alla vita del cuore e della mente. Camposanto le cui lapidi non portano più neppure dei nomi, ma soltanto dei numeri, tanto è l’oblìo nel quale sono sepolte e tanto grande è il numero di esse.
E noi viviamo fra quegli spettri, e ci allietano l’esistenza le loro ridde notturne, le loro fantasie di gente morta che anela pur sempre di vivere.
E non può rivivere mai più; perché così l’abbiamo fatta e così la vogliamo.
La società ha bisogno anche di fantasmi, crea dei tipi, sa ideare commedie; ma a’ suoi tipi e alle sue commedie non bastano le maschere di seta e gli attori sommi, bisogna che le fiabe della sua fantasia s’incarnino in un’esistenza reale, che le sue maschere sieno vive e belle, in carne ed ossa.
E col tempo e coll’ingegno il teatro del mondo si è fatto ricco, e le sue scene sono ormai affollate di gente viva nell’apparenza e morta nel fatto; e da quelle scene s’odono note rauche e dolorose, condannate ad echeggiare come tasti vivi, dai quali l’umanità strappa dolorosamente le crudeli ed incessanti armonie della sua lugubre gioia.
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