lunedì 7 settembre 2009

Era una prostituta

Si udirono delle grida soffocate, delle risa oscene.

Da quella camera seguitavano a uscire singhiozzi e lamenti. Spaventate, nelle alcove più vicine, delle donne seminude si sollevavano dai guanciali, e ascoltavano paurose.

La padrona udì quelle voci e non si mosse.

Le udirono le serventi, che con indifferenza servile corsero a chiudere gli usci perché la gioia notturna di quella casa non fosse funestata da quei tristi lamenti.

Ma questi lamenti duravano sempre.

Salì alta nel cielo la luna, e sparì lenta e luminosa dietro le vette lontane dei monti; s’imbiancò l’orizzonte per le prime luci dell’alba e quei lamenti ancora duravano.

Ad uno ad uno se n’andavano vergognosi e abbattuti i visitatori di quella casa; un sonno pesante, un’afa insopportabile, un nauseabondo odore di liquori, di vini e di profumi avvolgeva in ogni sala, in ogni camera le persone che ancora vi rimanevano. Ma in quell’afa, in quei sopori dell’orgia, passavano di tempo in tempo, come un guizzo di cosa viva, grida strazianti.

Durarono finché una portantina d’ospedale non venne verso il meriggio a raccogliere la povera delirante, che nei sogni spaventosi della febbre ricordava sempre la terribile realtà.

E dal letto del postribolo tornò al letto d’ospedale, straziata, contaminata; e al disopra di quel letto ove giaceva il corpo malato della bambina, un rappresentante della società civile e dell’ordine legale, appese un cartello, sul quale era scritta una parola infame.

Non lo vide e non lo seppe la povera giovanetta in preda a tutti i terrori del suo cervello malato, che le raffigurava le orribili ore passate, prima che lo sbigottimento, il dolore, il delitto compiuto sopra di lei, non l’avessero fatta quasi impazzire.

A capo del letto ove l’innocenza demente lottava e forse sperava ancora, stava inesorabile quel cartello. E le donne per bene, passando dinanzi ad esso, dopo aver guardato in su e dopo aver letto quella parola, volgevano la testa dall’altro lato, ora con disgusto, ora con malizia, talvolta con ira.

Era una prostituta.

Esse invece erano libere, mentre quella disgraziata era una schiava; e la sua giovinezza non la poteva scusare, ma l’accusava anzi maggiormente; il suo male non era per esse se non altro che una prova degli eccessi commessi nella colpa stessa, e per questa ragione nessuna, passando, si fermava presso al suo letto.

Donne galanti, mogli adultere, giovanette viziose, tutte passavano, guardandola con disprezzo.

Era una prostituta.

Non aveva più nulla in comune con le altre, non era più donna come loro, ma era soltanto una femmina; e la sua esistenza gravitava oramai inesorabilmente nella cerchia ributtante della propria femminilità.

Abbiezione irrevocabile, che agli occhi di tutti non appare come una disgrazia ancor maggiore per la sua irrevocabilità, ma anzi sembra più abbietta perché senza rimedio, e trae dalla stessa sua disperata condizione un obbrobrio sempre crescente, come ai tempi della schiavitù il non essere libero imponeva un marchio d’inferiorità crudele e assurdo.

È così che certi grandi delitti contro la natura nostra, non potendo ricadere sopra uno solo, perché compiuti da molti collettivamente, non soltanto creano delle vittime, ma riversano sopra di esse anche l’onta del delitto stesso, la quale dura e vive nei colpiti come marchio d’infamia.

Portarono quest’onta gli schiavi; la portano tuttora le prostitute, e la condividono tutti quei miserabili che soffrendo d’un’ingiustizia sociale, e non potendo punirla, la subiscono.

Quel cartellino unto e sdrucito pesava su quel letto, su quella bambina, sull’aria stessa che l’avvolgeva, come fosse una campana di cristallo, che separandola da tutto il resto del mondo per sempre, pure glielo lasciava vedere di fuori lieto e sprezzante, pieno di affetti e di virtù, di aspirazioni severe ed elevate.

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