domenica 6 settembre 2009

I più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità

Lo attendeva con la fede di una bambina. Aveva delle ore di febbre, nelle quali l’aspettava da un momento all’altro, quasi fosse cosa viva e dovesse entrare dalle porte o dalle finestre.

Che cosa poteva essere? Che uno di quegli uragani spaventosi e violenti, com’ella n’aveva visti tanti nei suoi monti, si scatenasse improvvisamente su quella casa, la scuotesse, l’atterrasse e la distruggesse per sempre? Sperava forse che la luce e il sole, puri e fragranti come l’aria delle cime alpestri, irrompessero a un tratto qual turbine rigeneratore in quelle camere, in quelle alcove, in quegli anditi; che v’illuminassero, v’abbagliassero tutte le vergogne che vi stavano nascoste e stipate; che nella fragranza dei muschi e delle erbe montane affogassero i profumi dell’orgia, e che tutta quell’afa di vizio e di corruzione morisse nella corrente pura e luminosa che l’aveva invasa?

Povera bambina, che popolava colle superstizioni dell’innocenza le paurose veglie in una camera di postribolo!

Ma intanto la padrona di quella casa perdeva la pazienza; temeva che la ragazza ammalasse, che qualche caso inatteso venisse a portarle aiuto e dare a lei gravi imbarazzi.

Indignata da quella fiera resistenza, sempre più irritata dalle supplicazioni e dalle lagrime della povera fanciulla, che non sapeva più trovare parole e preghiere bastanti per invocarla affinché la liberasse, impaziente di togliersi a tali supplicazioni angosciose, quella megera ideò un triste e feroce disegno.

Una notte quel disegno si effettuò.

Barberina guardava paurosa il cielo traverso le chiuse gelosie. Ascoltava tremante i passi e le voci della gente che passava nell’andito, mentre guardava le nuvole che correvano rapidamente nello spazio e le ombre nere di una notte burrascosa.

I suoi occhi fissavano il cielo, seguivano quelle nuvole, si raccomandavano a tutte le cose che erano fuori di lì, e intanto essa ascoltava trepidante.

In quella medesima ora la padrona della casa narrava, ridendo, a tre giovinastri avvinazzati, rozzi e brutali, le paure e le resistenze della povera Barberina.

Mostrò loro quella impresa come cosa degna della loro ardita giovinezza, fasto meritevole d’essere annoverato fra le memorie di quella casa; né a loro bisognava l’eccitamento delle sue parole, ed essa lo sapeva. Avea scelto accortamente fra i più triviali e tristi, fra i più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità.

Eccitati dal vino, dalla festa che si promettevano, dalle parole della padrona, quei tre salirono le scale che mettevano al secondo piano. Sghignazzando per i laidi scherzi che proferivano, percorsero chiassosi tutto l’andito e si fermarono dinanzi alla porta di Barberina.

L’aprirono ed entrarono.

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