mercoledì 30 settembre 2009

È un lusso, non una necessità


Non lo possiamo credere. Non possiamo ammettere che vi sia cosa voluta da una mente sana, la quale non abbia in sé il germe della propria effettuazione, e che non vi sia senso pigro od ottuso che per opera della volontà non possa diventare sottile e attivo.
Non raggiunge l’ingegno umano rivolto a scopi ideali talvolta una portentosa perfezione?
A che servirebbe educare l’orecchio alle sottigliezze dell’armonia, avvezzare i nervi dell’udito ai piaceri dolcissimi della melodia, a che servirebbe portare i sensi a vivere nel campo ideale e a toccar quasi con mano l’idealità e far trasalire al contatto del proprio pensiero, i nervi altrui, a che servirebbe tutto ciò, se nella grande vita del mondo e della società si rimane ciechi e sordi? Se non sentiamo né vediamo soffrire; se l’armonia lugubre e colossale dei dolori reali, sgorga viva e intensa dalle fibre umane, e che noi non sentiamo? Che cosa importa l’intendere le infinite variazioni prodotte da una nota, se una sordità grossolana e idiota ci fa sordi ai singhiozzi e alle grida del vero dolore?
Sprechiamo tutti indubbiamente nelle sottigliezze della vita ideale una gran parte di ciò che dovremmo alla realtà.
Che cos’è in noi, per esempio, questo amore dell’arte, che prende tanta parte di noi stessi e allontana i più dalle opere grandi della vita pratica? che prende i migliori fra noi per acutezza di sensi e prontezza d’ingegno, e li esaurisce in un’opera sterile, e fa fare ad un uomo che soccorrerebbe forse coll’ingegno ai mali di tanti, una statua inutile o una tela infeconda?
È un lusso, non una necessità.
È cosa che ci impoverisce, esaurendoci nell’opere della fantasia e che ci rende poi impotenti nell’effettuazione di quello che si potrebbe fare nella vita reale.
Eppure, trattando ora di una fra le cose che più ci esaurisce l’intelletto, eppure l’arte vera è solamente nel vero, e la creta nella quale il genio artistico deve modellare i suoi ideali è la natura umana, calda e viva, e non soltanto il marmo inerte; è lì dentro che deve lavorare modificando e migliorando, è lì che deve cercare l’ideale e inseguirlo, perseguitarlo, volerlo ardentemente; non è dalle fredde tastiere di avorio o dalle corde metalliche che escirà mai armonia potente e grande, come quella che puoi far vibrare dall’animo umano se lo sai e lo vuoi. E l’ascoltare e osservare l’animo nostro nelle sue più intime manifestazioni è scuola d’arte e di scienza, ma soprattutto è scuola che porta ad amare e volere quell’ideale sommo del bene senza il quale l’aspirazione verso il bello sarebbe inutile ed egoista. Perché il bello solo non sarebbe che un ideale stupido e infecondo se il voler la cosa bella non fosse il volerla buona, se la modificazione nella forma fisica non fosse modificazione anche di forma morale, e se la bellezza dell’intelletto nell’armonia dei pensieri e della volontà, non fosse il perno della bellezza fisica e ideale.
Perché dunque non far belle e migliori le cose vive? Perché affannarti a creare sul marmo o sulla tela un Socrate o un Plauto, un fanciullo o un animale che sieno perfetti, e non prendere un bimbo, un uomo o una donna e cercare di farli migliori? Perché turarti gli orecchi e imprecare ad una stonatura, e non sentire il grido di una vittima colpita ingiustamente, o il lamento di chi soffre, e non servirti di tutto il tuo ingegno per far rientrare nell’armonia quella stonatura vera, e soccorrerla? perché?
Siamo dunque ciechi e sordi perché ci siamo fatti un mondo astratto d’immagini e di colori, di suoni e di armonie, quasi nella vita non ve ne fossero, o che da quelli ci volessimo staccare e isolare. Abbiamo portato con aristocratico egoismo tutte le cose nostre fuori di qui, in un campo astratto e lontano, dal quale non s’odono le voci della realtà; e là non ascoltiamo più che noi stessi, le nostre fiabe, i nostri ideali e le nostre astrazioni; abbiamo inventato un egoismo diverso da quello che c’insegna la lotta per l’esistenza, perché abbiamo inventato anche quello dell’intelletto; abbiamo messo la fiaba come una barriera insormontabile, fra noi e la realtà; e più ci sentiamo artisti, e per questo più adatti ad intendere e compenetrarci nella realtà, tanto più ce ne allontaniamo.
Eppure l’arte, se non vuol finire, o durare come cosa inutile e dannosa, non è che soccorrendo i dolori e la miseria che può farsi grande e utile davvero; è lì che la sua perspicacia, le sue sottigliezze, la sua forza d’intuizione, le sue pronte osservazioni debbono fruttare e prosperare; è lì che la luce maravigliosa del genio deve portare calore e vita; è lì al riflesso dell’aspirazione ideale che deve risvegliarsi bella e forte la società nostra.
Nei secoli scorsi, il pensiero della famiglia umana emigrava desioso e impaziente verso le regioni ignote e lontane dell’idealismo. Era un’emigrazione incessante, favorita e incoraggiata sempre, che dalla terra muoveva verso il cielo.
Ma quante e quante di quelle carovane speranzose e credenti, sono ritornate in patria, quante ne tornano ogni giorno! E se quelle carovane avessero forma o sembianza di cosa viva, si vedrebbero percorrere lo spazio e reduci da altri mondi tornare alla terra come legioni di fantasime. E di quelle fantasime è piena l’atmosfera della nostra vita intellettuale.
Scienza ed arte, tutto rimpatria; e alle lontane speranze succedono i fecondi tentativi per far migliore il presente; e i sogni di perfezioni vaganti fra le nebbie delle astrazioni, diventano audaci tentativi per perfezionare la realtà.
Il nostro Dio non è più lontano, inarrivabile, è qui con noi nella natura, negli uomini e nelle cose, è nelle speranze e nelle fatiche d’oggi, è nell’abnegazione con la quale si lavora per far più felici quelli che verranno domani.
Così, anche alla piaga sociale, dalla quale ebbe origine tutta la mia storia, si sentirà forse un giorno la necessità di porre rimedio, e un alto sentimento umanitario troverà finalmente modo di riparare ad una condizione di cose tanto intollerabile quanto vergognosa.

E Luca?


Mentre scrivo queste pagine essa è tuttora vivente.
Tornata fra i suoi, vi ha ritrovato la pace e la serenità dell’animo. Guarita perfettamente del corpo, le è rimasto però un terrore sì grande di quello che aveva visto e patito, che non si può rammentarle quel tempo senzaché se ne conturbi tutta e che il delirio non la minacci di nuovo.
E Luca? ‒ domanderà forse qualche lettrice che avrà avuto la pazienza di seguirmi fin qui.
Di Luca non so nulla.
Vi sono amori più forti d’ogni pregiudizio, ma vi sono anche pregiudizi brutali e crudeli contro i quali l’affetto più gentile è impotente. Vi sono anche dei casi, come questo della Barberina, nei quali uno stato di cose violento e contro natura, che ha risvegliato sino all’ultimo limite tutti i ribrezzi e i disgusti del pudore, può alterare e smorzare quei sentimenti stessi, i quali hanno servito a risvegliare più vivamente i disgusti della vittima; mentre questa non poteva ignorare che per parte dei colpevoli era l’istinto di quegli stessi sentimenti, nella loro più brutale manifestazione, che fu cagione del delitto.
È avvenuto un che di simile nel cuore della fanciulla?
Non lo sappiamo.
Se ciò è stato, il tempo che ripara a tutto riparerà forse anche a questo.
Quello che possiamo affermare è che ormai essa è salva e al sicuro, e a noi basta.
E perché ella duri nell’essere sicura e sia salva davvero, non diremo né il nome della città nostra ove seguì il fatto narrato, né quello di chi ce lo raccontò.
Barberina è tuttora iscritta nei registri della Questura; la casa che la reclamava è tuttora aperta, e forse prospera più che mai, e una indiscrezione nostra potrebbe farla ritornare nel potere, legalmente riconosciuto, della padrona di quello stabilimento.
Quante, lettore, nelle quali fu minore l’energia del resistere o contro cui fu più prudente l’esecuzione del delitto, o meno evidente la prova dell’innocenza, subirono e subiscono ogni giorno di questi assassinii fisici e morali protetti dalla legge?
Eppure non ci si rimedia. E non ci si rimedia perché sembra insuperabile a tutti la difficoltà del discernere l’innocente fra tante corrotte e colpevoli, e perché non v’ha udito delicato che si creda capace di riconoscere fra le risa e gli urli triviali di tante perdute, il grido di dolore di una sola che invoca aiuto. E sgomenti della propria incapacità, l’impotenza è scusa ai migliori, che pur vorrebbero rimediare in qualche modo.
Si dovrebbe dunque disperare affatto di riparare a questo male e rassegnarsi a questa nuova forma di schiavitù sorta nei tempi moderni?

martedì 29 settembre 2009

Barberina era salva


Quando fu buio, la fecero escire di nuovo da quella casa, la misero in una carrozza e un altro prete che essa non conosceva, l’accompagnò. Il buon sacerdote che aveva fatto tanto per la sua liberazione le fece ancora molti avvertimenti e le dette una lettera da consegnarsi al parroco del suo paese; poi le disse addio.
La carrozza partì.
Era salva?
Barberina traversando le vie della città, guardava paurosa i fanali accesi, le vetrine illuminate delle botteghe, le case alte e buie. Alla svolta di una via s’accorse che passavano vicino a quel luogo dove l’avevano tormentata tanto.
Allora chiuse gli occhi e non guardò più, finché giunti alla stazione le dissero di scendere di carrozza.
La povera Barberina tremava forte forte in quel momento, per la paura e per la speranza; e quando le misero in mano il suo biglietto di ferrovia e la fecero salire in un vagone, e le dissero addio, non ebbe voce per ringraziare, né forza per stringere quelle mani liberatrici che tanto avevano fatto per lei.
La macchina fischiò con violenza rabbiosa. Barberina si scosse tutta a quel rumore improvviso. Le pareva che quel fischio che passava stridendo sopra la città, dovesse svegliarvi le cose che dormivano, e giungere perfino in quel luogo infame, ove la padrona vegliava a quest’ora, inesorabile e feroce, come il venditore di schiavi fra la sua merce.
Ma quel fischio morì nella notte senza risvegliarvi un’eco.
La gran città sparì a poco a poco dall’orizzonte co’ suoi lumi, i suoi campanili e le macchie nere dei suoi tetti. Un infinito numero di stelle brillò nel silenzio della notte, laddove prima si era veduta in lontananza come mostro informe la figura fantastica e vaporosa della città con le sue centinaia di fanali simili ad occhi pieni di luce. Quegli occhi di fuoco non guardavano più il riposo sereno delle grandi campagne che dormivano nell’ombra; l’attrazione di quelle luci febbrili, di quei palazzi monumentali e di quelle case agglomerate non esercitava più nella notte la sua fatale potenza. La città era sparita e il convoglio correva rapidamente verso le alte montagne.
Quando sorse l’alba splendida e pura, Barberina era salva.

lunedì 28 settembre 2009

La fanciulla aspettava trepidante quel momento

Barberina incominciava ad alzarsi per qualche ora. Aveva dal medico il permesso di andare a prendere un po’ d’aria in un cortile dell’ospedale, e di questo permesso si valsero i suoi protettori per effettuare la sua liberazione.
Coll’aiuto della suora, in una camera che serviva da ripostiglio, la giovanetta si travestì.
Indossò l’abito che le aveva preparato la monaca, fasciò una parte del viso come ci avesse male, e guidata dalla suora scese in un cortile. Anche un’altra donna, mandata appositamente, l’accompagnava.
Barberina tremando come una foglia baciò la mano della buona monaca e seguì la donna che la condusse fuori dall’ospedale.
Una vettura pubblica attendeva a poca distanza di lì, e un prete, nel quale la Barberina non ravvisò subito il suo protettore, aprì lo sportello, e dopo averle fatte entrare, sedette di faccia a loro.
La fanciulla, tutta raggomitolata nel fondo della carrozza ardiva appena alzare lo sguardo di tempo in tempo verso di lui; poi guardava con terrore le vie che percorrevano.
Ora finalmente si rendeva conto dell’impressione paurosa che le aveva fatta la città, la prima volta che v’era entrata; il vago senso di paura che le aveva ispirato tutto quel movimento, quel lusso, quella folla.
Le era parso allora che quella gran città covasse nascostamente dolori intensi, sofferenze ignote, e che ci fossero dei tristi misteri dietro a tutto quel lusso ingegnoso e svariato.
Ciò che allora aveva soltanto presentito, adesso lo sapeva.
La carrozza si fermò dinanzi ad un cancello in una parte remota della città.
Barberina vide una casa circondata da ortaglie e da lunghi pergolati, e in lontananza scorse la bianca catena de’ suoi monti. A quella vista il cuore le si allargò, e i suoi sguardi si fissarono con intenso desiderio su quelle vette lontane.
Il prete la condusse amorevolmente entro il cancello, e la fece entrare nella casa; e quivi la Barberina fu messa in una camera, dove la fecero riposare e le dettero di che ristorarsi.
La sera dello stesso giorno essa doveva partire.
La fanciulla aspettava trepidante quel momento.

domenica 27 settembre 2009

Pur troppo non c’era altro scampo


Quando ebbero fissato tutto, lo dissero anche alla Barberina. Glielo dissero a poco a poco, le parlarono dei dubbi e delle paure che avevano; la prepararono anche al caso che il loro piano potesse mancare.
Ma essa non ne dubitò. La fede e la speranza rinacquero in lei improvvisamente; la invasero come un turbine di gioia e di gratitudine intensa.
Non ringraziò, pianse. Pianse le prime lagrime di gioia che avesse pianto mai; baciò le mani del prete e della suora, e non parlò.
Le parve che le porte di una prigione orribile piena di malfattori e di istrumenti di torture, le s’aprisse dinanzi, e che essa ne uscisse libera, sola, e si ritrovasse finalmente fra i suoi.
Il disegno ideato dal prete e dalla suora, era una fuga.
Barberina doveva passare il confine e tornare al suo paese.
Fallito ogni altro mezzo, non rimaneva se non questo. Era un mezzo illegale e disperato; ma come sottrarla altrimenti a quella sorte terribile e barbara voluta dalla legge?
Pur troppo non c’era altro scampo.

martedì 22 settembre 2009

Le si affacciava come visione spaventosa


E nell’ignoranza della sua innocenza prorompevano logiche ed energiche le sue imprecazioni contro l’assurda crudeltà che la condannava. Poi a momenti, sentiva tutta la sua debolezza, la sua impotenza e invocava aiuto, chiedeva di morire mille volte piuttostoché tornare in quella casa infame, e la memoria di quel luogo, di quella camera, le si affacciava come visione spaventosa, e con questa tornava il delirio e pareva dovesse ammalare di nuovo.
A che cosa potevano servire i conforti dinanzi a quel dolore, dinanzi al fatto irrevocabile? Sapendola religiosa e profondamente credente, cercarono di tranquillarla parlandole di rassegnazione, di sacrifizio; le dissero di accettare la sua sorte come un martirio e di piegarcisi perché tale era la volontà di Dio.
Ma anche la fede religiosa, profonda e sincera com’era quella che portava nel cuore la giovanetta, si ribellava ad ogni parola di rassegnazione, ad ogni parola che accennasse anche da lontano alla possibilità di tornare in quel luogo. Più vigoroso d’ogni credenza, era in lei un sentimento primitivo e forte di dignità personale; al di sopra di ogni cosa vi era un senso di ribellione onesta e selvaggia che non poteva piegarsi in nessun modo.
Non poteva. Non c’era rassegnazione, non c’era volontà divina o umana dinanzi alla quale piegasse; diceva che sarebbe morta prima, che sarebbe morta volentieri anche subito.
Era disperazione di donna, non più di bambina.
Per essa non vi era possibilità di conforto.
La buona monaca dell’infermeria non sapeva che cosa fare per quell’infelice; quel dolore la straziava; e il non soccorrerla le pareva un’infamia. Anche il prete dell’ospedale la pensava come lei. Ma come fare?
Immischiarsi, più di quanto avevano già fatto, con la polizia per questo affare, minacciava di suscitare dei grossi guai; il bravo sacerdote e la povera suora erano pesciolini, in confronto dei superiori i quali non vedevano le cose come loro. Questi avrebbero risposto, se essi avessero insistito di nuovo in questa faccenda, che i tempi correvano poco favorevoli per andare a cercarsi delle brighe con chi governava, e che meglio era il serbare la propria influenza per ottenere altri e più importanti favori.
E intanto la disgraziata guariva, e il giorno fatale si avvicinava sempre più, e nella poverina crescevano la disperazione e lo sgomento.
Allora nella mente caritatevole di quei buoni che si erano impietositi di lei, nacque un disegno, pio e ardito, ma la cui effettuazione era difficile e pericolosa, e il cui esito sembrava incerto assai.
Ne parlarono con altri. Cercarono di guadagnarsi l’appoggio di una società di beneficenza. Idearono un piano ingegnoso, lo studiarono, lo discussero.
Era una congiura di buoni. Un vero miracolo di carità intelligente e audace.

domenica 20 settembre 2009

Quella ragazza era iscritta

E di queste storie se ne udivano ogni giorno in quell’ufficio, e gl’impiegati, vedendo come quei preti e quelle monache s’erano preso a cuore l’affare della Barberina, trovavano che essi avevano pure un gran buon tempo. Perché quei signori, come molta gente ignorante e volgare tra noi, erano liberi pensatori. Liberi pensatori in quel triste modo di esserlo, che esenta chi ne professa le opinioni, non soltanto da ogni credenza religiosa, ma anche da tutti quei sentimenti di carità e di dovere che essendo finora scaturiti specialmente dal sentimento religioso, vanno ora confusi dal volgo con esso, e con esso dimenticati o negletti.

E per questo le raccomandazioni dei preti per salvare la povera Barberina, e le premure fatte da essi, anziché giovarle, forse le nocquero; e così sciocco è sempre il pregiudizio, sia per la religione o contro di essa, che il vedere un prete o una monaca interessarsi ai casi di una disgraziata, faceva nascere il desiderio di mandare a vuoto l’opera loro, perché in qualche cosa e in qualche modo non riuscissero; quasicché al disopra di una lotta di credenze o di idee, e sia pure di logica contro l’assurdo, non debba sempre prevalere alto e gagliardo quel sentimento ancor bambino per molti, che è la carità civile.

E i preti e le monache non riescirono. Fu un trionfo di risatine stupide d’impiegatucci triviali e ignoranti, e di donne da postribolo. E così, mentre nessuno in questa cosa, fuorché i preti e le monache, s’interessava a quella disgraziata, mentre nessuna legge tutelava l’interesse dell’innocenza e della libertà individuale, trionfavano i difensori del potere civile contro gli sforzi inutili del partito avverso.

Barberina era dunque condannata a restare ciò che l’avevano fatta a sua insaputa; condannata irrevocabilmente a tornare in quella casa, a subire la volontà della megera padrona di essa.

Avevano un bel dire, il molto reverendo sacerdote che la raccomandava e le signore monache che non si vergognavano di proteggere le donne che appartenevano alla Questura; quella ragazza era iscritta, era caduta ormai nell’abisso, e ci doveva stare. Che cos’era di più di tante altre? Doveva forse godere privilegi perché la raccomandavano i frati?

Non c’era più scampo.

La giovanetta migliorava, e alle sue domande insistenti non ci fu verso di non rispondere il vero.

Quando glielo dissero, credettero fosse per impazzire.

Fu una scena straziante di disperazione.

A momenti non ci voleva credere assolutamente; le pareva impossibile che senza meritarselo in alcun modo, dopo tanti sforzi per fuggire quella sorte abbietta, ce la spingessero suo malgrado con la violenza, con la legge.

giovedì 17 settembre 2009

Le economie della prostituta!

L’economia poi, che è il primo passo che fanno queste infelici per arrivare alla liberazione, e che il nostro regolamento di pubblica sicurezza ricompensa nei suoi primordi con dei libretti della cassa di risparmio, questa ragazza non l’aveva saputa fare; quell’economia, che non fa chi non supera le altre nella dissolutezza e nell’abiezione più compiuta, e che il nostro regolamento favorisce e appoggia.

Dov’erano nel caso presente le economie della prostituta, e con esse le prove del suo ravvedimento?

Le economie della prostituta!

Ci hai pensato mai, lettore? Te la figuri la fanciulla, forse appena ventenne, calcolando i suoi tristi guadagni? te la figuri fredda e sobria in tutto, e poi per lucro dandosi al lusso sfrenato nel vizio? Trasformando l’abiezione in denaro? E accanto a questa fanciulla ingegnosa e furba non vedi il rappresentante della legge che le offre il premio delle sue fatiche, delle sue economie, che la rimunera con orgoglio e sapienza civile?

Non ci hai pensato mai?

Eppure ogni giorno esse ci passano d’accanto, ora liete e belle, ora sparute e meste. E presso alle economiche e benemerite non si vedono le altre travolte dal turbine del debito che cresce per ogni pudore, per ogni ritrosia, o per ogni sete di oblìo cercato nel chiasso dell’orgia. Non si vedono quelle che hanno un figlio, una madre, un vincolo qualunque spezzato bensì, col resto del mondo, ma che in esse è pur sempre vivo e duole come il braccio di un amputato.

L’economia loro che cos’è? Il vero titolo a un compenso, la prova del ravvedimento non è invece talvolta per esse il debito? Quel debito che alla grande catena di schiavitù dell’iscrizione che le vende alla società, aggiunge quell’altra più stretta e più dura che le vende ad un padrone solo, cupido e avaro.

Quel debito la Barberina l’aveva, e a quel debito non s’aggiungeva il fatto dell’essersi presentata spontaneamente? Perché credere di più a quello che diceva una bambina sedicenne che ad una mezzana esperta e provetta, e alla padrona d’una casa accreditata come quella cui aveva appartenuto la Barberina? E non era forse entrata nell’ospedale affetta, oltre la malattia cerebrale, di un male che provava la sua colpa? Che cos’era il nome di una ragazza di più fra tante e tante iscritte nel registro della Questura? Che cosa importava se là c’era andata più o meno volentieri, ora che la cosa era fatta e che non si poteva rimediare? Una ragazza che usciva da un luogo come quello, Dio buono, che cosa voleva fare fra le altre? Alla sezione di polizia ne avrebbero sorriso di certo, se la gran farragine di donne e il gran da fare per esse, non avesse impedito agli impiegati di occuparsi lungamente di un caso in particolare.

mercoledì 16 settembre 2009

Era un buon uomo; pio sino alla superstizione

Per non turbarla il prete rispose che non lo sapeva. L’esortò pel momento a non curarsi di quel cartello, a star tranquilla e a sperare in ciò che egli avrebbe cercato di fare per essa. Le disse le più efficaci parole di conforto che potesse trovare per il caso suo, e la lasciò promettendole di occuparsi subito di quanto riguardava la sua liberazione.

Era un buon uomo; pio sino alla superstizione, ardente nella sua fede. Accanto al sentimento religioso si era sviluppato in lui profondo e sincero il sentimento della carità. Neppur vivendo in mezzo ai malati e ai morenti, al dolore fisico e al dolore morale, la sua carità non s’era mai esaurita, non era venuta mai meno.

Il caso della povera ragazza, quel delitto mostruoso narrato da quelle labbra ancor quasi infantili col pudore e la franchezza dell’innocenza, l’avevano profondamente commosso. Andò subito dalla superiora delle monache che facevano il servizio dell’ospedale, s’affiatò col padre spirituale di un ricovero di beneficenza dal quale sperava aiuto; fece insomma quanto più poteva per soccorrerla e liberarla.

E gli altri lo aiutarono; lo aiutarono con zelo, con amore.

Ma i loro tentativi presso la Questura, presso la padrona del luogo d’onde la poveretta era uscita, non valsero a nulla. Quella donnaccia diceva che la giovinetta si era presentata volontariamente, accompagnata da una mezzana ben nota, la quale non trattava senonché donne di perduta fama; diceva che, accolta nella casa di tolleranza, aveva accettato vesti e biancherie che ella s’era perfino portate seco all’ospedale; diceva che vi aveva vissuto lautamente e v’avea contratto un debito così grosso che, per quanto inverosimile fosse la somma, doveva pur esser pagato dalla ragazza qualora non ci volesse più stare; s’intende che la mezzana, dal canto suo, negava recisamente che la fanciulla, entrando in quella casa, non sapesse dove andava e che non avesse manifestato spontaneamente il desiderio d’entrarvi.

Quanto alla Questura, ormai che la fanciulla era iscritta nei suoi registri, non era facile cosa il farne cancellare il nome. E con l’elastica parola di tutela del pubblico interesse, che copre tanta indolenza e tanti abusi in questo ramo di servizio, per paura che qualche mascalzone vizioso o qualche farabutto brutale non abbia a correre il rischio di una disgrazia, incerta e lieve sempre, se la paragoniamo al delitto di tenere a forza una innocente nella galera della prostituzione, per questo la Questura, senza fare indagini, accontentandosi soltanto delle spiegazioni date, trovò senza fondamento le domande che da più parti intorno a questa, le furono rivolte.

D’altra parte la ragazza per la sua condotta in quella casa non aveva dato garanzia alcuna di ordine e di buona condotta. Le sue bizzarre ritrosie, la sua disubbidienza alla padrona, il debito contratto con essa, lo provavano.

martedì 15 settembre 2009

Il prete non rispondeva

Ma non era così facile il confortare quella poveretta. Essa insisteva con un’ostinazione disperata, perché le fosse levato il cartello. Quel nome non lo voleva, non lo tollerava neppure con la promessa che avrebbero chiesto il permesso di levarlo più tardi, non poteva adattarsi neppure per un istante all’idea d’essere creduta una prostituta.

La suora con dolcezza e severità l’esortò a rassegnarsi; le promise di pensar subito al caso suo, di parlarne a chi poteva giovarle, e vedendo che la ragazza s’era fatta più tranquilla, la lasciò sola per badare agli altri malati, e mandarle il prete dell’infermeria affinché ella si consigliasse con lui.

Al prete la giovanetta raccontò quasi tutta la sua storia; non soltanto gli si confessò, ma gli si raccomandò con tutto l’animo.

Il buon sacerdote rimase profondamente colpito da quel racconto, e le promise di fare per essa quanto più poteva, esortandola per il momento a rassegnarsi.

Oh mi rassegno di buon cuore a tutto ‒ esclamò la poverina. ‒ Non mi lamenterò più, sopporterò dolori e febbri e mali d’ogni sorta, ma per carità mi levi quello scritto, me lo levi se non vuole che impazzi.

Non posso, ‒ rispose mestamente il prete.

Non può? ‒ domandò sgomenta la giovanetta. ‒ Neppur ora che le ho detto tutta la mia storia, tutta la verità, tutto quello che ho patito?

Il prete crollò il capo.

Povera ragazza, per ora rassegnatevi. Quel cartello noi non possiamo levarlo. Il regolamento dell’ospedale lo proibisce, e fintanto che non sia chiarita la vostra innocenza...

Debbo star qui con quella vergogna lì su... a capo del letto... debbo figurare come se fossi ancora in quella casa... ‒ poi un pensiero orribile le si affacciò alla mente.

Ma quella signora, quella donnaccia crudele... se volesse... dica, o per carità dica... se volesse, mi potrebbe riavere?

Il prete non rispose. Quell’infelice gli faceva troppa pietà, perché le potesse dire il vero.

Oh risponda, la scongiuro, risponda, ‒ tornava a chiedere sbigottita la fanciulla: ‒ quella donna diceva, che le dovevo tanto denaro, che non me ne sono mai guadagnato, che le devo una grossa somma, una somma enorme...

Il prete non rispondeva.

La fanciulla piena di terrore gli prese le mani, e, supplicandolo, domandò di nuovo che rispondesse.

Dica che non è vero, che non è possibile; lo dica; oh lo dica subito! ‒ implorava la giovanetta.

lunedì 14 settembre 2009

Levate, levate quel cartello

Finalmente capì. Allora cacciò un grido di spavento e di sdegno, e fece uno sforzo per uscire dal letto, ma non poté, e ricadde sui guanciali.

Un’infermiera accorse subito presso al suo letto. La malata, sopraffatta da quello che aveva provato, era quasi svenuta. L’infermiera s’affaticava invano per farla rinvenire, quando la suora, che aveva udito anch’essa quell’urlo, la raggiunse. Domandò che cosa era stato, ma né le malate più vicine, né l’infermiera stessa sapevano che cosa fosse seguito alla ragazza.

La suora rimandò l’infermiera e rimase sola ad assistere la malata. A poco a poco le riuscì di farla rinvenire; ma appena la giovanetta ebbe aperti gli occhi, balzò di nuovo a sedere sul letto, alzò le braccia, le stese verso il cartello, gridando:

Non è vero, non lo sono! Non è possibile, sono una ragazza onesta. Levate, levate quel cartello, levatelo subito!

La suora dubitava che alla poveretta fosse tornato di nuovo il delirio. Cercò di farla star quieta, la pregò di star zitta, di non disturbare le altre malate con le sue grida, ma nulla valse. La povera fanciulla non era in grado di domare il suo sdegno, il suo ribrezzo per la parola che stava scritta sopra al suo letto. Tutto l’animo suo si ribellava, tutta la sua fiera innocenza si risvegliava per imprecare indignata contro chi le aveva dato quel nome.

Aver tanto sofferto per poi svegliarsi qui, sotto a quella parola!

Una prostituta io? Io con quel nome, io? Ma non è vero, non è possibile, oh dica lei che non è vero, che non lo merito, lo dica! ‒ E si rivolgeva alla suora che l’ascoltava compresa di pietà e di stupore senza sapere che cosa rispondere.

Lei non sa che mi hanno presa a forza, non sa, ‒ e alla poverina non bastava neppur l’animo di ricordare l’orrore di quella scena; e lo spavento le si dipingeva negli occhi sbarrati, e la vergogna sulle guancie, che si facevano ora rosse rosse, ora pallide come se fosse per morire. Invano la suora cercava di tranquillarla.

Non lo potrò mai dire a nessuno tutto quello che è stato e quanto ho sofferto. Dio buono, ero dunque abbandonata anche da te in quell’ora? e quando mettevano qui al mio letto quello scritto infame non c’era chi parlasse per me? ‒ E la giovanetta giungeva le mani e pregava; pregava la suora, pregava Iddio e faceva sforzi inutili per rialzarsi sul letto e strappare quel cartello.

La monaca era profondamente commossa. Aveva ormai ben capito che quella poveretta non vaneggiava più, e che un crudele misfatto era stato commesso sopra un’innocente.

La confortò alla meglio, la pregò di star quieta, d’aversi cura, disse che avrebbe parlato di lei alla superiora e che forse quando stava meglio avrebbero potuto soccorrerla.

giovedì 10 settembre 2009

Finalmente il delirio cessò

Nella quiete di una sala d’ammalati meno frequentata delle altre, la giovanetta vaneggiava sempre, gridando e implorando.

La suora dell’infermeria raccoglieva con maraviglia alcune parole della malata, e il prete dell’ospedale si fermava talvolta perplesso dinanzi a quel letto.

Finalmente il delirio cessò; e un giorno, mentre un pallido raggio di sole autunnale illuminava mestamente la bianca fila dei letti dell’infermeria, la fanciulla rinvenne.

Guardò intorno a sé con maraviglia, fissò con stupore l’infermiera che passava in quel momento, e seguì con gli occhi la lunga fila dei letti e i visi dei malati.

Sentiva d’essere sotto al peso d’una grande disgrazia, di un terrore, e di un male che non ricordava ancor bene qual fosse.

A poco a poco si rammentò d’ogni cosa.

Balzò impaurita a sedere, e guardò ancora la sala, i malati e le infermiere che passavano.

Trasse un profondo sospiro. No, non era più in quel luogo orribile, n’era uscita; era nell’ospedale.

Si mise a sedere sul letto e guardò ancora intorno a sé. Come mai era venuta lì? quando?

Dopo... ma a quella notte terribile non poteva pensare, le sembrava un fatto avvenuto tanti anni addietro, tanto tanto tempo fa. Si voltò e guardò verso il muro.

Barberina aveva imparato un poco a leggere dai bambini della sua padrona.

Vide un cartello appeso sopra al suo letto, era scritto con caratteri grandi e chiari; ma la sua vista era debole e fosca in quel momento, e non poté leggere subito quello che vi stava scritto.

Appoggiò i gomiti ai guanciali, rialzò il capo e guardò più da vicino il cartello.

Quante volte nella medesima positura, distesa sui prati, aveva guardato insù alla vetta dei monti per vedere se Luca scendeva colle sue pecore!

In questo momento, rifacendo la stessa mossa, se ne ricordò. Chiuse gli occhi stanchi, e pensò a lui; ma presto li riaprì di nuovo sgomentata di quello che la memoria di lui evocava nel suo pensiero, e si mise a piangere amaramente.

Pianse per un pezzo; poi vinta dalla stanchezza si assopì leggermente; ma era un sonno così leggero che ogni rumore dell’infermeria la svegliava.

Era inquieta. Alla mente debole e confusa s’affacciavano mille paure. A momenti le pareva che tutto ciò che era avvenuto non fosse stato altro che sogno di febbre. Lo sperava, ma aveva paura. Era una paura indefinibile.

A un tratto si ricordò del cartello che aveva visto poco prima appeso al muro. Che cosa poteva essere? Si rialzò di nuovo e si provò a leggere. Ma ci vedeva poco e ci volle un pezzo, prima che giungesse a capire ciò che v’era scritto.

lunedì 7 settembre 2009

Era una prostituta

Si udirono delle grida soffocate, delle risa oscene.

Da quella camera seguitavano a uscire singhiozzi e lamenti. Spaventate, nelle alcove più vicine, delle donne seminude si sollevavano dai guanciali, e ascoltavano paurose.

La padrona udì quelle voci e non si mosse.

Le udirono le serventi, che con indifferenza servile corsero a chiudere gli usci perché la gioia notturna di quella casa non fosse funestata da quei tristi lamenti.

Ma questi lamenti duravano sempre.

Salì alta nel cielo la luna, e sparì lenta e luminosa dietro le vette lontane dei monti; s’imbiancò l’orizzonte per le prime luci dell’alba e quei lamenti ancora duravano.

Ad uno ad uno se n’andavano vergognosi e abbattuti i visitatori di quella casa; un sonno pesante, un’afa insopportabile, un nauseabondo odore di liquori, di vini e di profumi avvolgeva in ogni sala, in ogni camera le persone che ancora vi rimanevano. Ma in quell’afa, in quei sopori dell’orgia, passavano di tempo in tempo, come un guizzo di cosa viva, grida strazianti.

Durarono finché una portantina d’ospedale non venne verso il meriggio a raccogliere la povera delirante, che nei sogni spaventosi della febbre ricordava sempre la terribile realtà.

E dal letto del postribolo tornò al letto d’ospedale, straziata, contaminata; e al disopra di quel letto ove giaceva il corpo malato della bambina, un rappresentante della società civile e dell’ordine legale, appese un cartello, sul quale era scritta una parola infame.

Non lo vide e non lo seppe la povera giovanetta in preda a tutti i terrori del suo cervello malato, che le raffigurava le orribili ore passate, prima che lo sbigottimento, il dolore, il delitto compiuto sopra di lei, non l’avessero fatta quasi impazzire.

A capo del letto ove l’innocenza demente lottava e forse sperava ancora, stava inesorabile quel cartello. E le donne per bene, passando dinanzi ad esso, dopo aver guardato in su e dopo aver letto quella parola, volgevano la testa dall’altro lato, ora con disgusto, ora con malizia, talvolta con ira.

Era una prostituta.

Esse invece erano libere, mentre quella disgraziata era una schiava; e la sua giovinezza non la poteva scusare, ma l’accusava anzi maggiormente; il suo male non era per esse se non altro che una prova degli eccessi commessi nella colpa stessa, e per questa ragione nessuna, passando, si fermava presso al suo letto.

Donne galanti, mogli adultere, giovanette viziose, tutte passavano, guardandola con disprezzo.

Era una prostituta.

Non aveva più nulla in comune con le altre, non era più donna come loro, ma era soltanto una femmina; e la sua esistenza gravitava oramai inesorabilmente nella cerchia ributtante della propria femminilità.

Abbiezione irrevocabile, che agli occhi di tutti non appare come una disgrazia ancor maggiore per la sua irrevocabilità, ma anzi sembra più abbietta perché senza rimedio, e trae dalla stessa sua disperata condizione un obbrobrio sempre crescente, come ai tempi della schiavitù il non essere libero imponeva un marchio d’inferiorità crudele e assurdo.

È così che certi grandi delitti contro la natura nostra, non potendo ricadere sopra uno solo, perché compiuti da molti collettivamente, non soltanto creano delle vittime, ma riversano sopra di esse anche l’onta del delitto stesso, la quale dura e vive nei colpiti come marchio d’infamia.

Portarono quest’onta gli schiavi; la portano tuttora le prostitute, e la condividono tutti quei miserabili che soffrendo d’un’ingiustizia sociale, e non potendo punirla, la subiscono.

Quel cartellino unto e sdrucito pesava su quel letto, su quella bambina, sull’aria stessa che l’avvolgeva, come fosse una campana di cristallo, che separandola da tutto il resto del mondo per sempre, pure glielo lasciava vedere di fuori lieto e sprezzante, pieno di affetti e di virtù, di aspirazioni severe ed elevate.

domenica 6 settembre 2009

I più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità

Lo attendeva con la fede di una bambina. Aveva delle ore di febbre, nelle quali l’aspettava da un momento all’altro, quasi fosse cosa viva e dovesse entrare dalle porte o dalle finestre.

Che cosa poteva essere? Che uno di quegli uragani spaventosi e violenti, com’ella n’aveva visti tanti nei suoi monti, si scatenasse improvvisamente su quella casa, la scuotesse, l’atterrasse e la distruggesse per sempre? Sperava forse che la luce e il sole, puri e fragranti come l’aria delle cime alpestri, irrompessero a un tratto qual turbine rigeneratore in quelle camere, in quelle alcove, in quegli anditi; che v’illuminassero, v’abbagliassero tutte le vergogne che vi stavano nascoste e stipate; che nella fragranza dei muschi e delle erbe montane affogassero i profumi dell’orgia, e che tutta quell’afa di vizio e di corruzione morisse nella corrente pura e luminosa che l’aveva invasa?

Povera bambina, che popolava colle superstizioni dell’innocenza le paurose veglie in una camera di postribolo!

Ma intanto la padrona di quella casa perdeva la pazienza; temeva che la ragazza ammalasse, che qualche caso inatteso venisse a portarle aiuto e dare a lei gravi imbarazzi.

Indignata da quella fiera resistenza, sempre più irritata dalle supplicazioni e dalle lagrime della povera fanciulla, che non sapeva più trovare parole e preghiere bastanti per invocarla affinché la liberasse, impaziente di togliersi a tali supplicazioni angosciose, quella megera ideò un triste e feroce disegno.

Una notte quel disegno si effettuò.

Barberina guardava paurosa il cielo traverso le chiuse gelosie. Ascoltava tremante i passi e le voci della gente che passava nell’andito, mentre guardava le nuvole che correvano rapidamente nello spazio e le ombre nere di una notte burrascosa.

I suoi occhi fissavano il cielo, seguivano quelle nuvole, si raccomandavano a tutte le cose che erano fuori di lì, e intanto essa ascoltava trepidante.

In quella medesima ora la padrona della casa narrava, ridendo, a tre giovinastri avvinazzati, rozzi e brutali, le paure e le resistenze della povera Barberina.

Mostrò loro quella impresa come cosa degna della loro ardita giovinezza, fasto meritevole d’essere annoverato fra le memorie di quella casa; né a loro bisognava l’eccitamento delle sue parole, ed essa lo sapeva. Avea scelto accortamente fra i più triviali e tristi, fra i più brutali nel vizio e più audaci nell’oscenità.

Eccitati dal vino, dalla festa che si promettevano, dalle parole della padrona, quei tre salirono le scale che mettevano al secondo piano. Sghignazzando per i laidi scherzi che proferivano, percorsero chiassosi tutto l’andito e si fermarono dinanzi alla porta di Barberina.

L’aprirono ed entrarono.

giovedì 3 settembre 2009

La poveretta non sperava più che in un miracolo

E se il concetto della divinità nasce in noi dal contrasto di una grande e desiderata virtù ideale che si contrapponga ai vizi e alle trivialità del mondo, e se, trovato quell’alto concetto che contrasta compiutamente col puerile cinismo umano, l’adoriamo e lo prendiamo ad esempio, così poteva ben anche la povera Barberina ricordare con fervore quella realtà che ormai nel suo pensiero era tanto lontana che assumeva una forma ideale, e invocarla come cosa potente ed efficace. E il contrasto qui non mancava. E i ricordi delle grandiose scene di natura, e il sentimento infantile che ci si era educato e compenetrato tutto, contrastavano con la ributtante realtà presente, quanto contrasta l’immagine della vita umana con quella altissima e ideale dell’aspirazione filosofica o religiosa.

Barberina si aggrappava a quei ricordi del passato con un ardore disperato. Ci trovava la forza di resistere, l’energia della lotta. Essa non rammentava savie parole di consiglio, lezioni di morale severe e ponderate. No, non una parola scritta, non una parola detta le tornava alla mente in quest’ora di tribolazione, non ne sapeva, e forse, se ne avesse sapute, non le avrebbero bastato; no, ricordava un altro insegnamento più alto e più intenso, un insegnamento che aveva ricevuto in ogni istante della sua esistenza; ricordava una maestra severa e forte, che era stata sempre con lei e in lei, e quella maestra era la natura. Ricordava una famiglia, che incominciando dalla madre sua, si estendeva numerosa, feconda, infinita, intorno a lei; fin dove s’estendeva la vita del mondo da lei conosciuto, e quel ricordo la sorreggeva. La dolce memoria di essa la confortava e ammoniva; entrava tacita tacita, dalle gelosie socchiuse di quella camera infame, e si stendeva pura e incorruttibile col raggio di sole ai piedi di quel letto di postribolo, e scintillava nel cristallo dello specchio ove la sozza gioia di quella stanza s’era specchiata tante volte. Alta e pura la luce del sole brillava su quella casa, turpe invenzione di civiltà.

E quando Barberina vedeva quel po’ di sole, o spiava le stelle traverso le sbarre di legno delle gelosie, le pareva di vedere un viso d’amico e la confortava il pensare che la grande bellezza di natura era sempre forte e potente fuori di lì. Si figurava forse che la profonda vergogna che provava lei di tanta sciagura, l’avrebbe provata qualche altro; che la natura così bella avrebbe ispirato a tutti, a un tratto, come per miracolo, l’orrore, il ribrezzo che sentiva lei; che come lei avrebbero sentito, anche gli altri che erano in quella casa e fuori di essa, un che di terso, di puro, di incontaminato in se stessi, che si ribellava improvvisamente con selvaggia energia ad ogni turpitudine.

La poveretta non sperava più che in un miracolo.

martedì 1 settembre 2009

Ore di veglie angosciose

Passarono dei giorni, e peggio ancora che i giorni passarono le notti.

Ore di veglie angosciose, di supplicazioni inutili, nelle quali la febbre che tornava a scuotere le membra della povera convalescente, s’univa alla febbre morale di paure e terrori indescrivibili.

Era una lotta disperata.

Barberina si trascinava per terra ai piedi dell’orribile megera che era la padrona di quel luogo, l’implorava, la supplicava. Pianse davanti a lei le più sante lagrime della sua innocenza, pregò col fervore della disperazione.

Davanti a quella resistenza angosciosa, la triste donna non osava ritentare una prova simile a quella della prima sera. Temeva che la compassione potesse indurre qualche persona a fare più di quanto avesse fatto quel signore provinciale, le cui severe parole di ammonizione le tornavano alla mente, non per convincerla del delitto che commetteva, ma per consigliarla d’essere prudente. Essa sperava che la paura, anzi il terrore domerebbero a poco a poco la fiera resistenza della giovanetta; sperava che l’esempio delle altre, l’atmosfera corrotta di quel luogo, corromperebbero presto anche lei, e che vedendo ogni resistenza inutile, ogni altra speranza nell’esistenza chiusa e finita per sempre, si piegherebbe finalmente alla sua volontà e accetterebbe volentieri la sorte inevitabile che le era stata imposta.

Ma quella donnaccia s’ingannava.

Il corpo della povera Barberina si estenuava fra le paure e i terrori di quella vita travagliata, di quei giorni e di quelle notti passati spiando angosciosamente ogni passo, ogni suono di voce che s’avvicinava alla sua camera, raccogliendo con orrore le parole oscene, le risate laide delle altre donne, sentendo raccontare con un disgusto, che cresceva ogni giorno, i turpi aneddoti del luogo, rifuggendo con orrore dal pensiero dalle bassezze che per vile interesse commettevano quelle disgraziate, narrandole poi con l’orgoglio del più triste cinismo. Essa resisteva sempre.

Era un disgusto intraducibile, un ribellarsi continuo, incessante, una nausea morale che sollevava ogni sua fibra e ogni suo pensiero.

Che ore passava nella penombra di quella camera rossa, senza ardire di prender sonno, senza avere il coraggio di riposare, sempre desta, sempre attenta!

Quante preghiere innalzava alla santa della cappella, dinanzi alla quale le sembrava di veder costantemente ardere il lumicino acceso da sua madre; che disperate invocazioni, alla pace pura e solenne dei suoi monti, all’amore di Luca, quasi quella pace e quell’amore fossero divinità e la potessero ascoltare ed esaudire.