sabato 31 gennaio 2009

Era una mattina chiara e fresca di settembre

Barberina si sentiva ancora molto debole, ma non lo disse. Appena finita la visita si alzò; si vestì del modesto abitino di tela col quale era entrata nell’ospedale, fece un piccolo involto di quel po’ di biancheria che aveva portata seco, salutò e ringraziò la suora e le infermiere che l’avevano assistita, disse addio a due o tre donne che le erano state vicine di letto, baciò i bambini, e se ne andò.

Appena uscita dalla porta dell’ospedale trasse un gran respiro di consolazione.

Le vie le parvero più larghe, le case più belle, il cielo più azzurro e più limpido di prima. Era una mattina chiara e fresca di settembre. La città era animata da un lieto andirivieni di carrozze e barocci, di gente a piedi e di venditori ambulanti.

Alla Barberina non pareva vero di rivedere un po’ di cielo, un po’ di gente che rideva e chiacchierava e che non soffriva e non si lamentava, come ne aveva vista tanta all’ospedale.

Quella bella mattina, tutta quella lieta attività intorno ad essa, non soltanto le infondevano coraggio, ma le facevano dimenticare la debolezza della quale pativa ancora e i timori che le erano sorti dal non aver riveduto la padrona da tanto tempo. Provava una contentezza quasi spensierata; adesso le pareva d’essere più vicina di prima al suo paese, più vicina al conseguimento di tutti i suoi desideri. E pensava a Luca, pensava a’ suoi, e camminava più lesta che poteva verso la casa della sua signora. Rinvigorita da quella buon’aria le sue guancie pallide si colorivano leggermente, e i suoi occhi grandi e ingenui s’aprivano pieni di sorrisi alla vista d’ogni cosa.

La gente per la strada la guardava con simpatia.

Il contegno modesto e gentile, il volto giovanile, fatto pallido e delicato per la malattia e pei lunghi giorni passati nell’ombra di una sala di malati, la veste umile, ma pulita e attillata, lasciavano una grata impressione a chi, passando, fermava gli occhi sopra di lei.

La Barberina, troppo timida per chiedere la via che metteva alla casa ove abitava la sua signora e che era assai discosta dall’ospedale, guardava con attenzione ogni bottega, ogni cantonata, ogni svolta, cercando di rammentarsi i luoghi già veduti altre volte quando usciva per fare le commissioni o per accompagnare i bambini.

Camminò molto, prima di giungere alla dimora de’ suoi padroni.

venerdì 30 gennaio 2009

Da quel giorno non venne più

Un giorno la Barberina ardì chiederle se l’aveva scontentata in qualche cosa, o se forse le spiaceva di riprenderla in casa sua appena uscita dall’ospedale.

La buona signora la guardò con maraviglia, assicurandola amorevolmente che non aveva mai avuto a dolersi di lei e che sperava di riaverla presto in casa sua; ma poi, prima di lasciarla, si fe’ di nuovo seria seria e disse a Barberina che aveva gravi dispiaceri e che si sentiva molto infelice; però, appena detto questo, vergognandosi forse di quello sfogo improvviso con una giovanetta malata, alla quale non avrebbe mai potuto spiegare la vera cagione dei suoi dispiaceri, si alzò, e accommiatandosi da lei brevemente, la lasciò.

Da quel giorno non venne più.

Barberina l’aspettava sempre, e non sapeva darsi pace di non vederla.

Temeva che la sua buona signora fosse malata anch’essa, e che per questo motivo non potesse venire da lei.

Intanto la Barberina migliorava, e benché ancora debolissima, simulava col medico di sentirsi forte e vigorosa, a fine di ottenere più presto il permesso di uscire dall’ospedale. Essa si figurava che la sua signora aveva bisogno di lei, che era malata, che stava forse male; e il dover rimanere all’ospedale senza nessuno che la venisse a visitare, senza veder mai una persona di conoscenza, le metteva paura; si sentiva sola nel continuo va e vieni delle sale de’ malati e in quel luogo sempre aperto al pubblico. La gran porta d’ingresso aperta a tutti, che comunicava incessantemente colla città, e l’altra dal lato opposto, che metteva nell’interno dell’ospedale e dalla quale portavano via i morti, le mettevano entrambe uguale spavento.

Talvolta, nei sogni di febbre, sentendo passare sopra il suo letto la corrente d’aria che venendo dall’ingresso passava sibilando per gli anditi e le infermerie, essa si era figurata che quella corrente trascinava con sé la gente involontariamente; che veniva dalle più lontane e remote vie della città, traendo seco, come un fiume impetuoso, i più disgraziati e i più deboli.

Barberina non vedeva l’ora di uscire dall’ospedale. I primi giorni della convalescenza le parvero interminabili.

La sua padrona non si faceva viva, non mandava neppure a chiedere le sue nuove.

Finalmente una mattina, all’ora della visita, il medico le concesse il tanto sospirato permesso di uscire.

mercoledì 28 gennaio 2009

Voleva proprio farsi una ragazzina di casa, per bene e a modo

Come le parve buona quella voce, in mezzo all’isolamento dell’ospedale affollato! Le parve una voce di casa sua, quasi fosse quella di sua madre stessa.

La signora le fece una visita brevissima, ma le disse tante cose amorevoli, le ripeté tante volte che sarebbe guarita sicuramente e che sarebbe tornata presto al servizio, e le disse anche con tanto garbo che le voleva bene e che l’avrebbe tenuta sempre presso di sé, perché era una brava e onesta ragazza, che la Barberina non sapeva come ringraziarla. Quelle assicurazioni e quelle lodi in bocca della sua signora, che non era solita a prodigarne, le fecero un gran piacere e la rinfrancarono tutta. Ora le pareva proprio cosa sicura di guarire presto e di poter tornare senz’altro dalla sua padrona. Le voleva più bene di prima, dacché essa le aveva dimostrato tanta e maggior sollecitudine di quella che non mostrasse per il solito; le pareva anche di poter far meglio il suo dovere dacché sapeva che i suoi padroni apprezzavano la sua buona volontà ed erano contenti di lei. Ed essa voleva lavorar molto, farsi più esperta nel servizio, ed acquistare così un gran buon nome presso la sua signora; voleva anche fare delle economie, per potere poi un giorno, di lì a molto tempo, tornare nei suoi monti e rivedere Luca e sua madre. Voleva proprio farsi una ragazzina di casa, per bene e a modo. Pensava con disgusto a quelle servette civettuole e trasandate alle quali nessuno portava più rispetto, e che tutti guardavano press’a poco come le due donne del deposito avevano guardato quella povera morta. Lei, la fidanzata di Luca, rassomigliare ad una di quelle ragazze! E ricordava le sorelline, la madre, le ragazze del villaggio; e la sua dignità rozza e primitiva si ribellava all’idea di non diventare un giorno ancor più degna di tornar lassù, dove tutti erano buoni e onesti, o almeno le erano sempre parsi tali, e di non presentarsi portando un attestato di lode della sua padrona.

Pensava talvolta che il buon parroco l’avrebbe ricevuta al ritorno con un sorriso di benevolenza; immaginava di rivedere quella signora amica della sua padrona, alla quale si sarebbe presentata volontieri per dirle che aveva fatto sempre il suo dovere dal giorno che era partita. E si figurava spesso e volontieri tutto ciò che riguardava il ritorno al suo paese; se lo figurava con un certo orgoglio onesto e franco, e contava i mesi e gli anni con energia e tranquillità.

Passò con questi pensieri i lunghi giorni dell’ospedale; e si confortava, fidando nelle proprie forze e nell’avvenire.

La padrona la visitava ogni giorno, e quelle visite amorevoli stabilivano una certa intimità fra la signora e la giovanetta, come non era mai stata prima fra loro. Però, a misura che la Barberina stava meglio, quelle visite divenivano più rare, e la ragazza osservava con inquietudine che la signora si faceva più seria, che le sue visite diventavano sempre più brevi, e che c’era nel contegno della sua signora un non so che di mutato ed insolito.

domenica 25 gennaio 2009

La Barberina era più sgomentata dal modo di guardare di quelle donne che dalla vista del cadavere stesso. Quei quattro occhiacci sfacciati e sprezzanti, pieni di febbre e di dolore, le facevano paura, e mentre s’assopiva involontariamente sotto l’impressione di quella paura, li rivedeva in sogno, se li figurava vicini, e le pareva di sentirsi toccare da quegli occhi grandi, brutti, e faceva sforzi dolorosi e inutili per liberarsene.

Finalmente una monaca la svegliò, e la fece trasportare nell’infermeria nella quale si ricoveravano coloro che erano malate di malattia simile alla sua.

Era quella sala, situata a terreno, più chiara e spaziosa dell’altra, e dava sopra un cortile, nel quale crescevano alcune piante piccole e basse. Dei bambini vestiti di un rozzo camicione di tela correvano dall’infermeria al cortile, oppure camminavano fra i letti, rispondendo alle malate che li chiamavano, o accoccolandosi presso a qualche infermiera, che si fermava di tempo in tempo per accarezzarli.

Quei bambini erano mesti e tranquilli. La livrea dell’ospedale pesava sopra di essi e pareva dicesse loro cose tristi e ciniche, che ai bambini non si dicono mai; ancor piccini, avevano perduta l’inconsapevolezza dell’infanzia e sembrava fossero stati violati nella loro innocenza e nel loro pudore morale da quel triste camicione. E camminavano così, profanati eppure innocenti, fra quelle malate, quelle infermiere e quei medici, con un’indifferenza rassegnata che faceva male a vedere.

Barberina, non potendo rendersi conto di tutto ciò, vedeva soltanto che que’ bambini erano diversi dagli altri, e specialmente da quelli che aveva visti prima d’allora ne’ suoi monti. Ma erano i bambini della grande città bella e civile, e la grande città aveva fatto loro del male, come ne faceva a lei e a tanti altri. Era un male ignoto che colpiva tutti, anche i piccini.

Barberina si sentì confortata trovandosi in una sala dove erano molte altre giovanette come lei. Vi si sentì più sicura, e guardò intorno a sé con animo sollevato.

In quel punto udì la voce della sua signora che la chiamava.

sabato 24 gennaio 2009

Aveva paura ancora più del male e della morte

Barberina sentì ridere. Era un riso soffocato, triviale. Dio buono, pensò la ragazza, come si ride male, in questo luogo! Non sarebbe meglio che piangessero? Che cosa c’era lì dentro in quella sala, in mezzo a quella sfacciata pubblicità di dolore, a quelle sofferenze numerizzate, di triste e ributtante ancora più del dolore stesso? Che cosa era che in quel luogo le metteva paura ancora più del male e della morte?

Barberina guardò dalla parte d’onde aveva sentito ridere. Vide una donna non giovane, ma ancor bella, che era seduta sul letto con un braccio al collo. Un nastro rosso, sbiadito, le allacciava i capelli e uno scialle di trina sdrucito le copriva le spalle.

‒ Sarebbe una bella cosa se si potesse pregare, ‒ diceva la malata che prima aveva parlato a Barberina, ‒ sperare almeno qualche cosa... Ma anche la speranza è un lusso. Non sentire tanto il dolore presente da non poter pensare ad altro, non essere tanto sopraffatti dalla miseria e dal male ogni momento, da non aver più testa per sperare di star meglio o pensare al poi, sarebbe pure una bella cosa! Ma confidare in un momento di riposo è lusso, tutto lusso.

La bella donna sorrise ancora.

‒ A dar retta alle monache ‒ disse ‒ bisognerebbe essere contente di soffrire.

‒ Sì, e ringraziare chi ci manda il male, ‒ rispose l’altra. ‒ Almeno credessi che ci fosse chi lo manda! Hanno preso tutto i signori, i ricchi... tutto, perfino Dio... Che cosa diavolo n’hanno fatto, e perché l’hanno preso, non si sa! Non era roba da farne danaro, ghiottonerie o vesti.

‒ Serve per i libri, ‒ replicò la donna che aveva il braccio malato, con un certo fare di superiorità, ‒ i libri si vendono...

‒ E hanno venduto anche lui! ‒ esclamò la malata più vecchia. ‒ E Barberina sentì ancora quel riso di prima, interrotto da un lamento. Poi le due malate si voltarono, e guardarono un altro letto, quello vicino alla bella donna.

Una suora e un giovane civilmente vestito stendevano un lenzuolo sopra di esso.

‒ È morta! ‒ disse la vicina di Barberina.

‒ Chi era? ‒ chiese dopo un momento di silenzio.

‒ Una prostituta! ‒ rispose l’altra con aria sprezzante; ‒ l’hanno portata qui ferita di coltello.

Poi seguì un dialogo a bassa voce, poi una risatina, poi le donne guardarono il cadavere corpulento e grottesco, le cui forme si delineavano sotto le pieghe del lenzuolo, e per un pezzo non dissero più altro.

giovedì 22 gennaio 2009

Ci portan via come cani

Intanto la Barberina pensava a ciò che essa le aveva detto, e dopo un momento, vedendola tranquilla, s’azzardò ad interrogarla.

‒ Mi porteranno dunque via di qui? ‒ disse.

‒ Ma sicuro, ‒ rispose l’altra. ‒ Questo è il deposito, ‒ e vedendo che la ragazza non capiva subito, aggiunse: ‒ La sala d’aspetto, ‒ e sorrise di nuovo.

‒ Sala d’aspetto? ‒ replicò la Barberina. ‒ È così che si chiama quello stanzone là dove si parte... alla stazione?

‒ Precisamente! ‒ disse l’altra con lo stesso brutto sorriso di prima. ‒ Come alla stazione. Si parte anche di qui, bambina mia, e tutti i giorni, e tutte le ore, e tutti i minuti.

‒ Si parte...? ‒ balbettò la Barberina che aveva paura di capire.

‒ Per il camposanto. Ci portan via come cani. È ancora grazia se ci portano via senza farci a pezzi per studiarci. Siamo la povera gente noi... Ci prendono i nostri corpi anche dopo morti ‒ e le diede un’occhiata maligna e sfacciata; poi si contorse di nuovo. ‒ Hai paura?

Barberina fe’ cenno col capo di sì e voltò il viso dall’altra parte.

‒ Vergognati... Di che cosa hai paura? Forse ti ha messo spavento quello che t’ho detto ora... del tagliarci a pezzi? Ma non capisci che lo fanno dopo; quando non sentiamo più nulla? Che cosa te n’importa? Non hai ancora imparato a desiderare la morte tu? Non ci facessero male se non altro che quando siamo morte!

E la donna si voltava e rivoltava nel letto, lamentandosi sempre.

‒ È un lusso che non è fatto per noi l’aver paura di morire. Per Dio santo che male! ‒ e cacciò un urlo. La servente che passava di lì si fermò al suo letto e le domandò se aveva bisogno di qualche cosa, ma la malata si lamentava e si contorceva sempre senza rispondere; più tardi venne anche una suora di carità, la quale cercò di confortarla con delle buone parole, dicendole che presto l’avrebbero portata in un’altra sala e le avrebbero date delle medicine che l’avrebbero fatta guarire, e intanto l’esortava a raccomandarsi al Signore.

La donna rispose con un’alzata di spalle e con un lamento. Poi, quando la suora era andata via, si voltò verso il letto che le stava a fianco dal lato opposto a quello di Barberina.

‒ Pregare! ‒ esclamò con disprezzo.

mercoledì 21 gennaio 2009

Si sollevò nel letto e guardò meglio ogni cosa.

Nel luogo ove si trovava c’era un’afa, un brulichìo di gente, un’ombra pesante di mura e di tende, tanto affannosa e grave che per un pezzo non le riuscì di raccapezzare dove fosse.

Era in un letto stretto e duro, e accanto al suo letto ne vide un altro, poi un altro e poi un altro ancora, e poi una fila indistinta d’altri letti che si perdeva nella grave e triste penombra di quella sala.

Ne’ sogni della febbre aveva visto fino allora le lunghe e ombrose file delle querci e dei castani che crescevano sul pendìo de’ suoi monti, e ora fissava invece impaurita una lugubre prospettiva di tende e di lenzuola, fra le quali si muovevano incessantemente visi scarni, onde di capelli e bende di malati; e il contrasto che le presentava il ricordo del sogno con la realtà presente ne accresceva l’orrore.

Ma a poco a poco incominciò a distinguere con maggior chiarezza ciò che vedeva intorno a sé. Si sollevò nel letto e guardò meglio ogni cosa.

Vicino a lei era una giovanetta pallida e sparuta. La giovanetta si rialzava di tempo in tempo nel letto per tossire; poi ricadeva con un lamento sui guanciali.

Dall’altra parte le giaceva accanto un’altra malata. Era una donna di mezza età, brutta, scarmigliata, con gli occhi neri e lucenti.

Quando la Barberina si voltò da quella parte la donna le disse:

‒ È la prima volta che ci viene?

‒ Sì, ‒ rispose timidamente la Barberina.

La malata sorrise sinistramente.

‒ Ci sono già stata sei volte io. Avvezzandocisi non si sta poi tanto male. In che sala la porteranno?

‒ In che sala...? ‒ ripeté la Barberina maravigliata.

‒ Ah, non lo sa? Auf... che dolore ‒ disse la donna interrompendosi e contorcendosi. Stette zitta un momento, poi, rimettendosi nella positura di prima, riavviò il discorso. ‒ Che male ha?

‒ Non lo so ‒ rispose la Barberina.

‒ Non lo sa? ‒ esclamò l’altra, e la guardò per un pezzetto con curiosità. ‒ Sei di certo una contadina? ‒ chiese di nuovo, ma dandole questa volta senz’altro del tu, dopo che la giovanetta aveva dato prova di tanta ignoranza.

‒ I miei genitori sono pastori...

‒ Ah! ‒ fece con disprezzo la donna che si contorceva pe’ dolori, e non disse più nulla.

martedì 20 gennaio 2009

Una mattina tentò invano di alzarsi

Passarono molti mesi, e a poco a poco l’attività di Barberina andava scemando; perdeva l’appetito, e la padrona la trovava talvolta col lavoro sulle ginocchia, con le mani ripiegate sopra di esso, e lo sguardo fisso dinanzi a sé.

Se la signora le chiedeva allora che cosa avesse, rispondeva che non aveva nulla, e si vergognava molto d’essere stata sorpresa in un momento di stanchezza.

A misura che la Barberina deperiva, si sentiva più tranquilla, e le pareva, anziché d’essere malata, di abituarsi invece dolcemente al gran mutamento che si era operato nella sua vita. Tutto ciò che l’aveva tanto maravigliata una volta, ora non la maravigliava più, ed essa si confortava pensando con maggiore intensità di prima ai suoi monti e alla sua casa. Quei sogni, ne’ quali raffigurava il suo paese, le apparivano più frequenti e più veri e la consolavano.

Durò un pezzo in quello stato; sforzandosi a lavorare malgrado la fatica e il malessere, ed evocando le memorie del passato per tollerare il presente.

Ma la debolezza e il male furono più forti della sua volontà. Una mattina tentò invano di alzarsi. Una febbre gagliarda le toglieva quasi il respiro, e il capo grave e dolente le ricadeva sopra il guanciale ogni volta che provava a sollevarlo.

La signora, quando la trovò in quello stato, mandò subito per il medico, il quale, dopo aver visitata l’ammalata dichiarò che il male era lungo, difficile a guarirsi e tale da richiedere molta e continua assistenza.

I padroni della Barberina non erano ricchi; erano modesti negozianti, pe’ quali, specialmente allora, gli affari non andavano troppo bene, e non potevano quindi far curare nella propria casa una persona di servizio gravemente ammalata.

La fecero portare all’ospedale.

Essa vi andò con indifferenza. La sua buona signora ce la mandava, ed essa aveva fede in quella padrona, che era sempre stata giusta e amorevole per lei.

La signora le aveva inoltre promesso di visitarla subito lo stesso giorno, e di riprenderla appena stesse un poco meglio.

La Barberina fece dunque uno sforzo per alzarsi, vi riuscì, e coll’assistenza dei padroni poté anche scendere le scale e mettersi in un legno che la portò all’ospedale.

Allorché vi giunse si sentiva così male che non s’accorse neppure quando dal legno la portarono in una infermeria e la misero a letto.

Rinvenne lentamente.

lunedì 19 gennaio 2009

E di questi strani sogni aveva paura

Tutta la sua esistenza seguiva così oscuramente il suo corso dalla cucina alle botteghe, dal pianerottolo ove ciarlavano le serve alla strada ove correva timida e affaccendata per far la spesa o accompagnare i bambini. Le pareva d’essere in un fondo di pozzo torbido, ma tranquillo, ove tutti lavoravano senza speranza, senza distrazione, intorpiditi leggermente dalla mancanza di sole e di ventilazione. E in quel luogo triste e profondo s’agitava una gran massa di gente che si odiava, che si derideva, che soffriva o scherzava, che si pigiava oscenamente col pensiero e col fatto. Quello che faceva più soffrire la Barberina era la mancanza di quell’aria sana e pura che l’aveva fatta tanto ricca di salute e di forza ne’ suoi monti; e soffriva inoltre di dover vivere fra tanta gente, di abitare con essa quelle case alte e oscure, che si facevan ombra tra loro, consumandosi a vicenda la luce e l’aria. E le pareva che tutta quella gente dovesse consumare incessantemente anche qualcosa di più che luce e aria, qualcos’altro d’ignoto, quasi vi fosse un intenso dolore che facesse vivere la grande città, e che essa richiedesse una depredazione morale ignota, mostruosa come un delitto, dolorosa come un sacrifizio. Parevale che ci volesse di più che del denaro per far correre quelle eleganti vetture, per vestire così bene quelle belle signore e quei signori, per innalzare tutti quei monumenti che vedeva per le strade e per creare tutti quei teatri de’ quali sentiva vantare maraviglie; le pareva che ci volesse qualcos’altro ancora per raggiungere gli scopi della civiltà; che ci volesse uno sforzo intenso e misterioso, che facesse fruttare le fibre e i muscoli e li traducesse in lusso e in piaceri. E di questi strani sogni della sua immaginazione aveva paura come di cosa vera.

Chi aveva incominciato a pensare pel primo a tutto questo? A inventare il lusso, i divertimenti, tutte quelle centinaia di cose che vedeva senza intendere, complicati istrumenti di civiltà che la sgomentavano, come fossero strumenti di tortura? C’era dunque della gente felice anche qui? felice come lo era stata lei una volta, quando lo era tanto, che non aveva neppure coscienza di esserlo? Ma questi felici lo erano diversamente, poiché si creavano la propria felicità, se la facevano coi teatri, colle mode, coi libri, mentre lei l’aveva trovata bell’e fatta.

I libri? Che cosa ci poteva essere nei libri? pensava talvolta la Barberina. Delle parole? Proprio delle parole come quelle che diceva lei?

Alla Barberina veniva allora voglia di ridere. Che nei libri ci fossero delle chiacchiere simili a quelle dei bambini o dei bottegai che conosceva? Ma a che serviva il fermare così le parole, invece di lasciarle andare per la loro strada e morire come la gente e tutte le cose di questo mondo? Parlavano forse soltanto di fatti strani, come ne vedeva molti senza intenderli; o erano forse pieni di parole, come certe vetrine erano piene di oggetti rari, de’ quali non sapeva a che cosa potessero servire?

Quanta confusione di cose crea la gran quantità di gente che vive assieme pigiata nello stesso luogo! E quella confusione la sgomentava come cosa che deve traboccare e invadere, e allora pensava con stanchezza e desiderio ai lunghi silenzi della sua valle, e alla lontana e dolce canzone di Luca.

domenica 18 gennaio 2009

Barberina s’era sentita sola per la prima volta

E intanto Barberina si faceva sempre più donna e lasciava ogni giorno dietro di sé un lembo di quella veste morale che aveva avvolta e protetta la bambina.

Era una natura delicata, ma fiera ed energica. Aveva quella purezza d’animo e quella dignità tenace di chi ha potuto crescere senza sentir l’attrito della società, di chi senza saperlo ha vissuto sotto una protezione efficace, con la benefica illusione di una libertà assoluta.

Non aveva visto né il male, né il bene; aveva sentito la buona influenza della solitudine, ignorando l’isolamento; aveva provato sì vivo il sentimento della natura, che nelle ore di maggior solitudine, lontana da tutti, non s’era mai sentita sola; perché è nella folla soltanto che nasce il sentimento dell’abbandono assoluto e dell’isolamento, e non v’ha landa sterminata o mare senza fine che ci renda l’animo sgomento e deserto quanto il sentirci circondati e stretti dal tumultuoso accavallarsi della marea sempre crescente dell’egoismo umano. E l’egoismo isolato non prospera facilmente; esso ha bisogno di specchiarsi nell’egoismo di un altro, o di alimentarsi nell’altrui sentimento servile e prepotente per farsi forte; e predilige vivere nelle grandi masse di vita umana parassita sordido e vigoroso, ma pur talvolta così ricco di vita e di forze che vi appare in alcuni grande e maraviglioso come una virtù.

Barberina s’era sentita sola per la prima volta nel viaggio da N, dove pure s’era trovata in mezzo a tanta gente; e d’allora in poi un senso vago di abbandono, d’isolamento le era sempre rimasto; lo provava anche nelle ore meno tristi.

Si sentiva sola quando un mascalzone qualunque, passandole accanto per la strada, le sussurrava all’orecchio parole triviali che incominciava appena ad intendere; si sentiva sola quando dai bottegai o dalle serve del vicinato, udiva fare certi discorsi equivoci, udiva raccontare fatti e aneddoti nuovi affatto per lei, o sentiva narrare di certe vergogne subìte, di certi oscuri delitti commessi quotidianamente, e s’accertava che tutti quei racconti non erano fiabe ma fatti che si verificavano ogni giorno, che erano la storia vera e viva della grande città. Così, a misura che vedeva più gente e più cose che alla gente appartengono, a misura che osservava più da vicino, e che ogni cosa prendeva ai suoi occhi una forma più chiara e precisa, le veniva una paura superstiziosa di tutto quello che udiva, un ribrezzo morale indefinito, simile alla paura di una malattia contagiosa; le pareva che una povera ragazza come lei fosse più d’ogni altra esposta a subire tutto il male che ci poteva essere, ma non sapeva che male fosse; era una paura lontana, vaga e senza motivo.

sabato 17 gennaio 2009

Poi ricadeva in uno scoraggiamento profondo

Quel noviziato non durò molto. Barberina era intelligente e docile, e imparò presto assai quello che la sua signora le insegnava.

Così in breve tempo la famiglia presso alla quale essa serviva incominciò a volerle bene, e la signora le affidava spesso anche i bambini perché li portasse a spasso o li accompagnasse alla scuola.

Barberina però non s’avvezzava alla vita di città quanto lo credevano i padroni, a’ quali non mostrava mai nessun dispiacere d’aver lasciato il proprio paese, nessuna impazienza di ritornarvi.

Eppure essa vi pensava sempre; vi pensava con desiderio, quasi con angoscia.

Alle volte la coglieva una paura irragionevole di non più rivederlo, di non potervi più andare, di aver smarrita la via per ritornarvi. E allora ricordava paurosamente la confusa fantasmagoria del suo primo viaggio; quasicché le molte persone sconosciute che avea incontrate, e i paesi nuovi che aveva veduti e percorsi, e il grande strepito delle locomotive e dei treni, fossero barriere insuperabili che la separavano tutte da casa sua.

Quanti e quanti giorni, mentre essa se ne stava seduta nell’ombra e nell’afa di una piccola cucina, la finestra della quale, dando sopra uno stretto cortile chiuso fra le case, non le mandava talvolta neppur luce bastante per cucire di bianco, quante volte in que’ giorni di pioggia o di nebbia ripensava alla viva luce del cielo che rischiarava i suoi monti, all’abbagliante luccicare del sole sulle vette di essi, e allora un’acuta fragranza montana le tornava alla memoria con intensità dolorosa, quasi fosse cosa reale; e con quella memoria veniva pure quella di Luca e delle sue liete canzoni, e parevale che a un tratto tutta la sua vita passata l’avvolgesse, le tornasse vicina, presente, e si rieffettuasse in un sogno ad occhi aperti, che le faceva parere ancora più triste la realtà.

La vita della montagna le appariva come una festa di luce e di colori, nella triste penombra della sua cucina.

Era la fata maravigliosa che si presentava desiderata, inattesa, agli occhi stanchi della povera Cenerentola. E Barberina fissava con gli occhi della mente quel sogno splendido, e guardava insaziata, col desiderio, nella vita passata, ricordando ogni cosa con avidità; ricontando tutto ciò che poteva rammentare, come se il ricordo le desse dei diritti di proprietaria e che le memorie fossero gemme o monete da ricontarsi con un piacere d’avaro.

Poi, finita quell’ora di sogni, ricadeva in uno scoraggiamento profondo, e cercava, aumentando d’attività e di zelo, di nascondere quell’afflizione alla sua buona padrona.

mercoledì 14 gennaio 2009

Barberina giunse alla città

Quando Barberina giunse alla città, essa era talmente confusa e maravigliata di tutte le cose nuove che aveva vedute lungo il viaggio, che scendendo alla grande stazione di X, le parve che in ventiquattro ore tutto il mondo avesse mutato, che la sua valle silenziosa, perduta fra i monti, non esistesse più e che non fosse mai stata se non che nei sogni della sua infanzia.

Ed ogni cosa nuova che vedeva l’allontanava sempre più dalla sua casa e dal suo paese; l’affaccendarsi della folla, il correre dei legni, il fischio lontano delle locomotive, lo strepitìo di gente che parlava in tante lingue, la sgomentavano; la stazione le parve un luogo fantastico, pieno d’ignote maraviglie, di sorprese spaventose; il cuore di un essere vivente e gigantesco, che riversava delle ondate disordinate di vita a quell’essere ignoto che portava il nome di città e che viveva per opera sua.

E la grande città riceveva ingorda e insaziabile l’ondata umana che entrava dalla sua porta mentre ne riversava un’altra che esciva dal lato opposto e correva pur essa affannosa fuori di lì.

Barberina, appoggiata al muro dalla parte esterna della stazione, guardava intimidita e paurosa quella scena. Nessuno era ancora venuto a prenderla ed essa non sapeva a chi rivolgersi per farsi indicare la via.

Finalmente una signora le si accostò e le domandò se essa non era la Barberina, che veniva da N.

Barberina rispose di sì e le porse il foglio che il parroco del paese le aveva detto di presentare alla sua futura padrona.

La signora l’aperse, lo lesse, poi con un sorriso dolce e benevolo disse:

‒ Non ho potuto trovarti prima, perché uscendo dalla stazione sei venuta da questa parte ove non c’è nessuno. Hai avuto forse paura di tanta gente sconosciuta? ‒ aggiunse con gentilezza.

Barberina confessò arrossendo che s’era molto vergognata di tutta quella folla. I modi affabili della signora l’incoraggiarono, ed essa la seguì tutta rincorata da quella buona accoglienza.

La signora la condusse a casa con sé, la fece riposare, e nei giorni seguenti, a poco a poco, le insegnò tutto quello che doveva sapere, per far bene il servizio di casa sua.

domenica 11 gennaio 2009

Le parole di Luca l’avevano sconvolta tutta

‒ Vai via senza rispondere? ‒ domandò Luca, con voce tremante. Barberina se ne stette ancora un poco pensosa. Le parole di Luca l’avevano sconvolta tutta, l’aveano turbata profondamente; in mezzo al dolore sentiva una gran gioia, una gioia che aumentava il dolore stesso, ma che era pur sempre gioia. Per opera di questi sentimenti confusi che s’agitavano in lei, la bambina diventava donna; e framezzo alle inscienti tenebre dell’infanzia si faceva viva nel suo pensiero per la prima volta l’intuizione dei sorrisi, delle passioni, di tutte le angoscie della giovinezza.

Ora la partenza le sembrava più crudele, eppure avrebbe risoluto spontaneamente di partire, se non avesse avuto altro mezzo per farsi dire da Luca le parole che egli le aveva dette ora.

Per Barberina era finita quell’epoca di vita nella quale basta l’assenza del dolore per essere felici, e nella quale il non essere felici è infelicità. Ora la sua esistenza aveva mutato a un tratto. Aveva intravveduto l’amore e la gioia. Tutto il resto non poteva essere altro per lei che dolore, e lo era.

Nell’infanzia si spera in quella gran cosa ignota che è l’avvenire; più tardi la cosa ignota prende forma, si vede, si sente, e tutta la vita si compendia nell’affannosa impazienza del volerla raggiungere e non poterlo mai.

Così ogni vita umana ha il suo fuoco fatuo che insegue indarno, e il mondo scintilla ovunque di quelle luci tenaci e traditrici, che lo fanno tanto pieno di attrattive e tanto pieno d’angoscie.

Barberina fissò abbagliata il suo fuoco fatuo, che vedeva per la prima volta; lo fissò con maraviglia, con trasporto, e vi portò audacemente l’animo suo perché ardesse e vivesse.

‒ Tornerò per te, ‒ disse dolcemente al giovane e gli stese la mano, ‒ tornerò senza dubbio, tornerò anche se dovessi camminare a piedi giorno e notte.

‒ Sarai mia moglie? ‒ domandò ancora Luca.

‒ Sì ‒ replicò la Barberina a voce bassa, e lo guardò impaurita da quella promessa; poi, senza dir altro, si svincolò dalla stretta della sua mano e fuggì via.

Luca non la trattenne e non la richiamò; non fece neppure un movimento per seguirla.

Essa aveva detto di sì, e ciò bastava.

Quel quarto d’ora era stato tanto pieno di avvenimenti, di emozioni, di pensieri nuovi e impreveduti per entrambi, che erano ormai incapaci di dire o fare di più. Pareva ad essi che tutto fosse ormai fissato e combinato. Credevano aver raggiunto un intento, pel quale inavvertitamente avevano lavorato da un gran pezzo. Ormai non c’era più nulla a dire, e quella promessa toglieva ad entrambi tutta l’amarezza della separazione; anzi si sentivano tanto vicini come non lo erano stati mai, tanto uniti come non avevano mai neppur sognato di poterlo essere.

Era la pienezza del sentimento che li accontentava a quel modo.

L’angoscia della separazione dovevano provarla più tardi, dopo rinvenuti dall’orgasmo di quell’ora; e il dolore, che non si fa mai aspettare, venne e durò un pezzo.

venerdì 9 gennaio 2009

Tornerò, tornerò di certo

‒ Ricordati di noi, ‒ disse. ‒ Ricordati che siamo poveri; cerca di guadagnare per te e per noi, e di farti voler bene dai padroni; ti raccomanderemo al Signore, Barberina, pregheremo sempre tutti per te. Accenderò un lumicino dinanzi all’immagine di santa Barbera nella cappella del bosco. Siamo troppo miserabili, ‒ aggiunse con rassegnazione, ‒ per sperare di rivederci qui. Ma il tempo passa presto per chi sa rassegnarsi, e giungerà un giorno nel quale il Signore ci richiamerà a sé; cesseranno allora gli stenti e le fatiche, e in quel giorno ci rivedremo. ‒ E così dicendo l’abbracciava, poi con una mossa rapida trascinò seco il bambino e tornò addietro senza più voltarsi.

‒ Mamma! ‒ gridò Barberina con voce soffocata. Ma la donna non si voltò, e forse non udì quel grido, turbata com’era dal proprio dolore.

Barberina si mise a sedere sopra un muricciuolo, e nascose il viso nelle mani.

‒ Su via Barberina, fatti coraggio, ‒ le disse Luca che era rimasto vicino a lei. ‒ A che serve piangere così? Guadagnerai del danaro a X, e potrai un giorno o l’altro tornare fra noi. Ti vorremo sempre bene, lo sai; ed io, Barberina, starò lassù ad aspettarti, e canterò tutte le canzoni che più ti piacevano, e la sera passando per la via ove c’incontravamo ti manderò un saluto.

Barberina gli stese la mano. ‒ Tornerò, tornerò di certo, ‒ disse fra i singhiozzi.

‒ Ti aspetto, ‒ rispose, e avvicinandosele ancora di più si chinò verso di lei. ‒ Ti aspetto, Barberina, perché ti voglio tanto bene e perché nessun’altra ragazza dei nostri monti mi pare bella e buona come te. Ti aspetto, ‒ disse, ‒ perché voglio che tu diventi mia moglie. ‒ Egli le parlava a voce bassa e le aveva preso le mani, che stringeva forte forte. Mai Luca le aveva fatto un sì lungo discorso. La povera Barberina, tutta turbata, sentiva alla gola un nodo che non le permetteva di parlare.

‒ Non vuoi che ti aspetti? ‒ domandò allora dopo un breve silenzio il giovanotto. ‒ Non tornerai, Barberina? Vuoi restare laggiù per vestire come le donne di città, e per maritarti ad un uomo che porti degli stivali e un bell’abito nero? ‒ E guardò malinconicamente i suoi piedi nudi e le maniche della sua camicia fatte di tela grossolana. ‒ Vuoi un signore ben vestito? ‒ Invano la Barberina faceva dei cenni di diniego; Luca non le dava retta e animandosi sempre più continuava: ‒ Ti vergogneresti di un uomo come me? Già lo so, quando andate via, voi altre ragazze, è sempre così, diventate delle damine e vi vergognate di noi altri; eppure tu Barberina ‒ e la guardava con tenerezza ‒ tu non dovresti essere come le altre.

Barberina fece un grande sforzo, si alzò e lo guardò con gli occhi pieni di lagrime.

‒ Tornerò, Luca, ‒ disse ‒ tornerò per rivedere la mamma, il babbo e i bambini.

‒ E per me? ‒ domandò il giovane.

‒ Tornerò anche per te ‒ disse e abbassò gli occhi e si fece rossa rossa.

‒ Torneresti per me solo anche se tutti gli altri non ci fossero più? ‒ domandò esso brutalmente.

Barberina non rispose subito. Diventò ancor più rossa di prima; poi si scostò un poco da lui.

giovedì 8 gennaio 2009

Aveva indovinato che cos’era la povertà

Pianse. Sì, adesso era povera, lo sapeva, ne era certa. Aveva visto le belle case, le botteghe eleganti, la gente ben vestita, i libri, i giornali, ed aveva indovinato che cos’era la povertà. Era il sudiciume che cade in terra; i rimasugli e i ritagli che lascia dietro a sé quella macchina colossale e instancabile che crea la civiltà e il lusso, lavorando giorno e notte nel mondo per la società. Essa si era sentita presa nell’ingranaggio di quella macchina; s’era sentita presa dolcemente, senza troppa scossa, ma pure sapeva che d’ora in avanti doveva dare sempre parte di sé a quella cosa ignota, immensa, che laggiù nelle grandi città creava i ricchi, e lasciava cadere a terra come una segatura vivente la povertà e la miseria.

E senza rendersi un conto esatto delle sue impressioni, sentiva già di appartenere ad un nuovo ordine di cose, e di essere trascinata da una corrente che l’aveva già strappata alla sua terra e l’aveva tolta per sempre alla pace insciente della natura.

Al momento della sua partenza da casa venne anche Luca il caprajo a dirle addio. Era un giovanotto allegro e robusto, col quale soleva sempre incontrarsi la sera, quando riconducendo a casa le pecore, passava accanto alla stalla del babbo di lui.

S’erano sempre visti e conosciuti fin da bambini.

La Barberina s’era abituata ad ascoltare la canzone di Luca che le veniva da lontano, portata dal vento; e mentre essa sedeva tutta sola sul pendìo del monte, sapeva che più in su pascevano le capre di Luca, e che era solo a guardarle come era lei; e le faceva piacere di sapere che egli non era lontano. E il canto di Luca non sembravale mai cosa che interrompesse il silenzio o che stuonasse in mezzo ai rumori della campagna, ma le era divenuto familiare come il canto delle cicale o l’agitarsi delle foglie scosse dal vento.

Pure il giorno dell’addio Luca a un tratto le parve un altro. Si staccò improvvisamente dalla scena con la quale essa lo aveva confuso sino allora; uscì inconsapevole di fra le cose inanimate, e le parve vederlo e conoscerlo per la prima volta.

Barberina scendeva il pendìo del monte accompagnata dalla mamma e da un fratellino. Luca la seguiva ad una certa distanza, tenendo d’occhio le sue capre che pascevano un poco più su nella prateria.

Giunti ad una svolta tutti si fermarono. La madre di Barberina la baciò piangendo.

martedì 6 gennaio 2009

Nel sentire quel nome la Barberina rimase sgomenta.

La signora che l’aveva mandata a chiamare, era una vecchietta ancor vispa e robusta; fece alla Barberina un monte d’interrogazioni; poi finalmente le disse che le aveva trovato un servizio presso certi negozianti di X, e le nominò una fra le principali città d’Italia.

Nel sentire quel nome la Barberina rimase sgomenta. L’aveva sentita nominare tante volte quella città; l’avevano nominata dinanzi a lei gli uomini di casa sua, il babbo e il nonno. Il nonno c’era stato, era il solo che l’avesse vista, e quando ne parlava lo faceva con rispetto, con ammirazione, e solamente il babbo rispondeva, mentre le donne non azzardavano di metter bocca in quel discorso, quasi che si trattasse un argomento troppo elevato per esse; e ora la piccola Barberina, come solevano chiamarla a casa sua, doveva andarci, e andarci tutta sola!

Quello sgomento non sfuggì alla signora, che la rincorò subito con delle buone parole. Le disse che i suoi padroni l’avrebbero mandata a prendere alla stazione, che sarebbero stati amorevoli e indulgenti verso di lei, che essa avrebbe potuto, col tempo, essendo laboriosa ed economa, guadagnare del danaro, fare delle economie e aiutare i genitori; ma Barberina l’ascoltava senza rispondere.

La signora, vedendo che essa non parlava, lasciò a mezzo il suo discorsetto d’incoraggiamento, e le disse senz’altro di tenersi pronta alla partenza, perché probabilmente la sera del giorno seguente l’avrebbe fatta chiamare per mandarla a X.

‒ Così presto! ‒ esclamò la giovanetta, con una stretta al cuore.

‒ Sì ‒ replicò la signora. ‒ La famiglia che ti ha fissato, ha bisogno di avere subito la donna di servizio.

‒ Sarà lungo il viaggio? ‒ domandò timidamente la Barberina.

‒ Piuttosto ‒ rispose la signora; ‒ e le disse di quanto.

La piccola città dove esse si trovavano era situata presso il confine d’Italia, in uno Stato limitrofo al nostro.

Barberina tornò a casa mesta e pensosa. Dei grossi goccioloni le cadevano di sotto alle palpebre sulle guancie rosee e delicate. Camminava pel solito sentiero che metteva alla casupola dei genitori; saliva il pendìo ombroso e fiorito del monte, e le pareva di non appartenere più alla gente che abitava in quella casupola, di essere già un’estranea fra quegli alberi e quei prati. Le sembrava che anche le sue pecore la guardassero con maraviglia, non riconoscendola più. Si ricordò allora delle pecore che il babbo conduceva al mercato, le quali tornavano segnate di rosso o di turchino da chi l’aveva comprate; e le parve di dover avere anch’essa in qualche parte del corpo un segno simile a quello delle pecore, che indicasse come ella non apparteneva più alla famiglia sua, alla mandra, alla valle.

lunedì 5 gennaio 2009

La natura la dava alla società. La società la prese.

Se la ginestra o il timo del monte potessero risvegliarsi a poco a poco alla coscienza di vivere, lo farebbero come lo faceva lei, senza sgomento, senza orgoglio, con una profonda e serena convinzione del proprio diritto d’essere, con un sentimento della propria dignità istintivo e gagliardo, che traeva dalla coscienza di solidarietà con tutta la natura, con tutto ciò che ha vita o apparenza di vita, la sicurezza del proprio valore.

Ma venne un tempo nel quale l’avvenire temuto e ignoto le si avvicinò a un tratto.

A sedici anni la bambina, cresciuta sino allora con le virtù e le ignoranze degli animali e dei fiori, diventava cosa più perfetta, più umana, presentiva e desiderava altre sensazioni, altri piaceri.

E mentre ella così progrediva dall’infanzia insciente alle speranze dell’adolescenza, i suoi genitori, poverissimi, che a mala pena campavano la numerosa famiglia, pensarono di metterla al servizio, per liberarsi così da un peso troppo grave alla loro miseria. Per questo si rivolsero al parroco del villaggio che giaceva a piè del monte sul quale avevano la loro modesta casupola; egli aderì di buon grado alle loro istanze, promettendo il suo ajuto, e raccomandando la Barberina ad una signora che abitava una vicina città.

Da quel giorno Barberina non ebbe più pace. Le parve che ogni cosa avesse mutato intorno a lei, e che perfino in lei stessa fosse avvenuto un cambiamento; le pareva che nella sua valle silenziosa e deserta giungessero ad ogni istante i rumori del di fuori, voci lontane, grida di folla. E provava una curiosità irresistibile di vedere, di sapere, di uscire dalla solitudine e tuffarsi nella vita, e insieme a questo desiderio violento le veniva anche una grande paura di quel mondo che non conosceva e che pur desiderava.

Era l’educanda che usciva dalle mura del collegio, pura, ingenua, desiderosa di vivere.

La natura la dava alla società. La società la prese.

La signora alla quale il parroco l’aveva raccomandata la mandò ben presto a chiamare.

Barberina vide allora per la prima volta una piccola città; vide le case, le vie, le botteghe, l’andirivieni della gente per le strade, e si sentì strappata a un tratto e per sempre alla quiete dei suoi monti.

Vide dei ricchi e si sentì povera.

giovedì 1 gennaio 2009

Barberina aveva sedici anni

Barberina aveva sedici anni quando venne in X, una delle principali città d’Italia, per entrar al servizio di una famiglia d’agiati commercianti.

Era fresca e robusta, timida come una signorina appena uscita di convento, ignorante come le pecore e le capre che aveva portato a pascere per tanti anni nei monti ove era nata.

Essa esciva dalle valli solitarie delle sue montagne, come l’educanda esce dalle mura del chiostro: ingenua, vergognosa, maravigliandosi di tutto e di tutti. Anch’essa, come l’educanda, era stata rinchiusa in un breve spazio di terra segregato dal resto del mondo; anch’essa era stata abituata ai lunghi silenzi, alle placide e dolci contemplazioni, e alla monotona disciplina del lavoro.

Barberina di casa sua era poverissima.

Essa lo sapeva da un pezzo, perché glielo dicevano i genitori, non perché se ne fosse accorta da sè: aveva già sedici anni e ancora non capiva bene che cosa volesse dire la povertà. Mentre era ancora a casa sua, indovinava che la miseria era cosa che non soltanto la minacciava allora, per la quale pativano e si tormentavano i genitori, ma che era una disgrazia che l’avrebbe sicuramente perseguitata nell’avvenire, ed alla quale non poteva sfuggire in nessun modo.

Essa non aveva mai patito per il freddo dell’inverno o per il sole cocente dell’estate; la polenta dura e stantia che le davano i genitori aveva sempre bastato al suo gagliardo appetito, e al suo gusto era parsa ognora squisita; il vecchio giaciglio di paglia bastava ai suoi sonni placidi e profondi, e non aveva ancora provato il desiderio di cose migliori. Con la forza viva della giovinezza essa attingeva vigore e salute in tutto ciò che era intorno a lei. Attingeva nell’aria vibrata del monte, nel calore del sole, un piacere di vivere che era fecondo di vita.

Cresceva come un fiore esposto alla brezza pura e fragrante della montagna. E in quel lusso di natura l’essere povera le sembrava cosa assurda, e non l’intendeva più di quello che l’intendessero i fiori e le pecore della sua mandria.

Il suo sviluppo intellettuale fu lento.

Non era provocato artificialmente, ma nasceva spontaneamente in lei per combinarsi poi con quello che era fuori di lei.

I suoi pensieri si risvegliavano lenti e maravigliati nelle lunghe ore di ozio, mentre pasceva le pecore e sedeva canterellando sul pendìo del monte. Quasi sempre nascevano sotto l’evocazione di certe melodie strascicanti e monotone che la bambina inventava da sè, seguendo con gli occhi le nuvole che le passavano sopra il capo o guardando i vapori che luminosi e lenti ascendevano verso sera sull’orizzonte.