domenica 8 febbraio 2009

S’asciugò le lagrime dagli occhi senza parlare

La portinaja, che si puliva le lenti degli occhiali con un vecchio fazzoletto di cotone color turchino, ebbe un po’ di compassione.

‒ L’ortolana qui sotto… la Beppa... La conosce la Beppa, ‒ disse alzando la voce, perché le sembrava che la ragazza non udisse le sue parole.

‒ Sì... ‒ mormorò con voce fioca la Barberina.

‒ Ebbene, la Beppa sa di parecchi servizi, me ne parlò ieri, e tutti buoni; c’era una signora che cercava una donna subito. Vada dalla Beppa, vada a nome mio; dica che è la Rosa portinaja che la manda, e che venga pure da me chi vuole a prendere informazioni che le darò buone.

‒ Grazie, ‒ disse la ragazza; e fe’ una mossa per levare l’involto dei suoi panni dal davanzale dello sportello; ma poi lo lasciò stare, perché non trovò in sé la forza di muoversi. Non poteva risolversi a lasciare quel luogo od andar via da quella casa.

‒ Non perda tempo, ‒ tornò a dire con tono più duro la portinaja. ‒ Quel servizio può esserci ancora se la si spiccia. Vada; qui, come le ho già detto, non ci può stare. Il padrone non vuol chiacchiere. Ora dia retta a me, vada dalla Beppa, e qualcosa le capiterà. Si spicci, e se vuol tornare un altro giorno, venga pure.

Ormai bisognava che, per amore o per forza, la Barberina se ne andasse. S’asciugò le lagrime dagli occhi senza parlare, prese il suo involto, riannodò il fazzolettino che portava sul capo, e fece una mossa lenta per scostarsi dallo sportello. Provava una tenerezza indefinibile per quelle mura, per quella vecchia e oscura portineria, per quelle scale che mettevano al quartiere che era stato abitato dai suoi padroni, e del quale vedeva le finestre dal posto in cui era. L’angoscia di quel momento prestava ad ogni cosa già veduta un valore incalcolabile; a misura che il sentimento d’essere abbandonata da tutti le si faceva più vivo, nasceva fra essa e quella vecchia casa, fra quelle mura bigie e quelle penombre malinconiche un’affinità misteriosa, un legame nascosto, pieno di tenerezze e di ricordi.

Alla Barberina s’affacciava con angosciosa insistenza la certezza che, se usciva di lì, non vi sarebbe mai più tornata, non avrebbe mai più riveduto, né quella casa, né quella portineria, né quella signora Rosa, che era il solo essere vivente che conoscesse un poco nella città.

Chinò il capo e fece un cenno alla portinaja, come volesse parlarle, ma la parola non le uscì dalla gola, stretta convulsivamente. Fece alcuni passi per uscire, ma sull’uscio si fermò di nuovo.

‒ Signora Rosa, ‒ disse piano, ‒ se la Beppa non mi trova un servizio subito, potrei tornare all’ospedale?

‒ All’ospedale! ‒ esclamò questa. ‒ Che, le ha dato volta il cervello? Ma se è guarita, che cosa la ci vuol fare all’ospedale? Crede che sia una locanda? Dio buono, ragazzina, non la ci pensi neppure all’ospedale, e ringrazi la Madonna d’esserne uscita così sana e forte. Troverà di certo un posto e migliore di quello di prima, grazie al cielo. Vada, vada dalla Beppa.

E la Barberina, mormorando un grazie e un saluto, chinò il capo, e soffocando un singhiozzo, uscì.

La sua figura mesta e giovanile sparì dal varco della porta, ove si disegnava un momento prima sul fondo chiaro della luce di fuori. La portinaja ricordò ancora per qualche momento la curva leggera del capo, del collo e di tutta quella persona che pareva piegarsi non per forza di una pressione esterna, ma per opera di un accasciamento interno, come se una molla si rompesse o piegasse dentro di lei.

Ma quella memoria durò poco.

Alla signora Rosa non parve vero che fosse andata via. Si rimise gli occhiali, accomodò per bene i guanciali sudici e mezzi vuoti del suo seggiolone, e nella sua triste abitazione, nella sua povertà oscura e malinconica ebbe finalmente il piacere di godersi una volta in vita sua il lusso di un egoismo da signori, quello di sentirsi seduta comodamente, al sicuro, in un’abitazione pressoché sua, protetta dal freddo e dalla fame, mentre quell’altra se ne andava via sola, senza asilo, senza sapere se avrebbe trovato al giungere della sera un ricovero per la notte. E intanto il gattone dormiva saporitamente, e la portinaja chiudeva di tempo in tempo le palpebre sotto gli occhiali, e sembrava che l’egoismo soddisfatto mormorasse dolcemente, quasi russasse di piacere, sotto al pelo della bestia e sotto ai logori cenci della donna. Se a noi fosse dato un sesto senso per udire il segreto agitarsi del pensiero, udremmo così fors’anche l’intiera città mormorare dolcemente, e il brontolìo di piacere dell’egoismo soddisfatto, escendo dalle sue alcove, dalle sue case, dalle sue vie, ci assorderebbe, tormentoso e insistente, avvolgendoci dovunque. Ma l’egoismo è muto per noi; i suoi dolori e le sue gioje sono silenziose, e passa nelle fibre umane senza rumore, pudico e ignobile.

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