venerdì 20 febbraio 2009

Molti fra i miei lettori faranno forse delle obiezioni

Giunti a questo punto della nostra narrazione, molti fra i miei lettori faranno forse delle obiezioni; diranno che in tutte le principali nostre città vi sono istituti di beneficenza, asili per le giovanette abbandonate, per i bambini, per gli infermi; istituti fondati coll’intenzione di aiutare precisamente le infelici che si trovassero nelle condizioni della povera Barberina; ed è questa un’osservazione vera, ed io posso aggiungere di mio, che nella civile e colta città italiana, nella quale seguiva il fatto che sto narrando, di tali istituti ve ne sono parecchi e commendevoli, e fatti in modo che la Barberina avrebbe potuto senza difficoltà presentarsi ad uno di essi ed esservi accolta e protetta. Ma come poteva essa saperlo, se neppure la signora Rosa e la Beppa gliene avevano parlato? Perché né la Rosa, né la Beppa sapevano esattamente se ci fossero, o dove fossero, e sebbene qualchevolta n’avevano sentito parlare, o n’avevano letto il nome in qualche cronaca di giornale, pure credevano fossero luoghi ove senza raccomandazioni di signori o di preti o di monache non ci si potesse andare. E questi Istituti apparivano loro piuttosto come attuazioni di un’astratta teoria di carità, inventata dai ricchi, che qual fondazioni popolari e pratiche da poter servire veramente ai bisogni immediati e quotidiani della povera gente. E così accade che giornalmente, sotto le mura stesse di ospizi e ricoveri, seguano tristi casi di abbandono e di corruzione, contro i quali sarebbero stati specialmente fondati quegl’Istituti di beneficenza, che finiscono soltanto col riescir utili a coloro che non sono tanto miserabili o tanto isolati da non poter aspettarsene l’aiuto. E così avviene che i casi peggiori, i più urgenti, quelli che hanno maggior bisogno di soccorso, perché ignorano perfino che il soccorso ci sia, non trovano che di rado l’aiuto che si meriterebbero.

Questo fatto incontestabile, dell’ignoranza nelle classi povere di Istituti creati allo scopo di soccorrerle, questo avverarsi continuamente di tali ignoranze, il trovar che l’esatta conoscenza della loro esistenza sfugge perfino alla curiosità delle signore Rose e delle signore Beppe, vale a dire delle portinaie e delle bottegaie, è una prova della loro insufficenza e più che insufficenza, è prova di uno stato di cose contrario allo spirito stesso che informa la loro istituzione.

Perché mai questi ricoveri creati con fini specialmente determinati, che si limitano a servire un bisogno urgente della miseria o del dolore, non sono tanto popolari, tanto conosciuti come dovrebbero essere, e non s’acquistano fra il popolo il diritto di vivere la vita di un’individualità cara, famigliare, protettrice? Perché non sono essi come l’ospedale centrale e il manicomio, noti a tutti, e in modo così preciso, che ciascun povero che ne chieda la via ad un altro sia sicuro di averne l’indirizzo, o di saperne i particolari?

Perché questa diversità? Come accade che le madri e i padri di famiglia non sieno confortati, pensando che vi sono ospizj nei quali le loro figlie esposte per la miseria e l’abbandono alle corruzioni dei tristi, troverebbero soccorso o rifugio, e che dei giovanetti traviati da cattivi compagni vi troverebbero lavoro e disciplina; che più disgraziati e già colpevoli, dopo espiata una pena, potrebbero coll’aiuto di esperti educatori ritentare la prova del riuscir buoni e utili alla società? E come mai questi stessi genitori, che trovano tanto aiuto negli Istituti di beneficenza, non ne propalano a tutti le lodi e non fanno loro acquistare una vera popolarità?

Perché questi enti morali, specialisti filantropici di malattie morali, non sono noti al popolino come l’oculista, il cavadenti, il professore di medicina che si è acquistato un nome nella cura speciale di una malattia?

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