mercoledì 27 maggio 2009

L’iscritta è per sempre moralmente una morta

Le impone, come punizione del fallo, la recidiva nel fallo stesso. Punisce prima e protegge poi la stessa cosa. La fa sua, l’iscrive; e l’iscritta è per sempre moralmente una morta. È morta legalmente, non ha più nessun tribunale nel mondo al quale possa appellarsi, non ha più altro scampo senonché una vile e triste prevalenza nel male, che la faccia predominare sopra le altre, che la porti col denaro della corruzione più in alto di esse, e che le permetta così di addimostrare che ha mezzi propri di sussistenza co’ quali può comprare la propria libertà; nel caso contrario, non le resta altro scampo fuorché il morire, la morte vera, dopo quella inflitta dalla legge.

Ma la società ne ha bisogno.

Le vuol giovani e belle, le vuole eleganti nella forma e nell’acconciatura, le vuole ricche di bellezza naturale e di bellezza artificiale; più saranno seducenti e piene di grazia, più avranno apparenza di cosa buona, e più efficace sarà la loro abbiezione, meglio soddisfatto sarà negli altri il bestiale desiderio di profanare, di contaminare, più facilmente si smorzeranno le follie della materia, e si risolleverà l’animo purgato, alle aspirazioni ideali; e il bruto ridiventerà o filosofo, o moralista, o artista.

Dal fango di quella miseria risale alto e puro il pensiero dell’uomo civile, ridiventa estetico, ridiventa nobile e grande. In lui dal ribrezzo dell’orgia, rinasce più intenso l’amore pudico e gentile; dal disgusto che ispira la ragazza venduta, nasce nell’animo il soave ideale della donna, e da quell’onda viva, nella quale la società depone le sue più tristi passioni, escono forti e gagliarde le aspirazioni elevate e le virtù civili.

A chi darebbesi tutta quella vita selvaggia e brutale che s’agita ancor sempre nell’uomo incivilito, se non a loro?

E lo potrebbe se non fossero tanto ignoranti quanto giovani e belle?

Se v’ha cosa ancor più brutta di questa vergogna sociale, così com’ella esiste ora fra noi, è forse la triste ipocrisia con la quale la società sprezza il male che ha fatto da sé, e lo sprezza in coloro che lo subiscono come n’avessero tutta la colpa; quasiché le infelici da essa sprezzate, non fossero state un giorno, come lo sono le nostre sorelle e le nostre figlie, pure ed innocenti; e le sprezza come se la colpa non fosse tutta dalla parte di chi non le salva, potendolo, da una sì grande sciagura e vergogna; ed invece, vantandosi di quella moralità che dovrebbe essere la salvezza di tutti, e non è che privilegio di pochi, se ne serve ipocritamente per sprezzarle.

Eppure quegli stessi che volgono lo sguardo pudico dalla prostituta che passa accanto a loro per la via, e non sanno vedere e compatire nel triste contegno il male morale, come nel corpo affranto e nel viso sparuto la sofferenza fisica, pure quegli stessi inorridiscono pietosi alle storie della schiavitù nei paesi lontani, ricordano con raccapriccio le crudeli torture inflitte legalmente nei foschi tempi medioevali, e ancora, leggendo le vecchie storie, provano una commozione sdegnata per le vittime innocenti, che il fanatismo religioso sacrificava sugli altari di feroci divinità. Ma che forse la scure del carnefice o il coltello del sacerdote, hanno fatto soffrire di più di quello che non lo faccia qui ogni giorno il vizio che uccide civilmente in un letto di postribolo o in un fondo di spedale?

È sempre il medesimo sacrifizio umano, è sempre nella speranza di scongiurare un pericolo che la società tormenta e uccide. E se vi fu mai supplizio iniquo, delitto veramente esecrabile, se vi fu raffinatezza nel tormentare e cinismo nell’infliggere sofferenze, fu sempre quando l’umanità sacrificò a se stessa, alle sue passioni e ai suoi vizi una parte di sé; quando non consumò la vita per l’ideale, ma la divorò per accontentare la materia; quando il fine del male che commetteva non era il sacrifizio a un dio, ma un’offerta all’idolo del proprio egoismo.

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